È in un clima politico improntato all’austerità che si vive nel 2010 in Grecia. Dopo il crollo della struttura finanziaria del Paese e l’intervento dell’Unione Europea, che ha però imposto rigide regole di comportamento in una specie di occupazione politico-finanziaria, solo dopo anni il Paese si sarebbe ripreso tornando ad esercitare la propria autonomia politica che era stata quanto meno limitata. Ed è in queste stesse condizioni che Athina Rachel Tsangari ha realizzato in quello stesso anno Attenberg, suo secondo impegno da regista presentato in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia con la vittoria della Coppa Volpi quale migliore attrice protagonista di Ariane Labed. Strutturato quasi come una brechtiana commedia dell’esistere, Attenberg non sappiamo esattamente quanto costituisca conseguenza della situazione greca, ma il suo apparire sufficientemente pessimista, nel generale sguardo negativo che la sua protagonista dà sulla vita, farebbe propendere per quella ipotesi. Ma lo si voglia o meno ricondurre all’interno di un percorso nel quale sia possibile un raffronto con la situazione politico-sociale del Paese, è certo che il film della regista greca ci offra uno scenario piuttosto desolato della condizione dell’esistere e una certa distanza da ogni pacificazione con il mondo circostante. Marina ha il padre Spyros che è malato terminale e con il quale intesse le ultime relazioni durante le sue visite in ospedale. La sua inesperienza sessuale trova gli insegnamenti di Bella, la sua amica disinibita e disponibile a vivere le esperienze che le si offrono. La sua passione per i documentari naturalistici di David Attenborough, detto Attenberg, fanno da surrogato alla sua incapacità a vivere la sua gioventù. I suoi sensi sono risvegliati da un ingegnere che viene a lavorare nella città industriale dove vive Marina. La sua relazione con l’uomo e la scomparsa del padre diventano forse lo snodo determinante per la sua vita futura.
Il tratto essenziale che si coglie nel film di Tsangari e che avrebbe trovato conferma nel suo successivo Chevalier di cinque anni dopo è l’assenza assoluta di ogni possibile felicità, né la gioventù di Marina e di Bella e l’esuberanza sessuale di quest’ultima, né i benestanti, protagonisti del film successivo, possiedono, neppure per un attimo, quel tratto di possibile felicità dell’esistere che ne dovrebbe dominare le azioni. Il cinema della regista, Attenberg compreso, si sviluppa dentro questa specie di teorema nel quale si definisce una infelicità connaturata alla natura umana, apparentemente ingiustificata, ma che trova ragione in quella incapacità a relazionarsi con gli altri in una specie di incessante scontro fratricida che qui diventa ragione dell’incapacità a vivere e nel successivo film si stempera in un gioco di rapporti malati tra quelli che dovrebbero essere amici.
E allora Attenberg nella sua apparenza quasi da cinema del nord Europa per la freddezza che lo domina, per la sua aria kaurismakiana, ma senza alcuna ironia che possa fare da contrappeso alla fatica del vivere, diventa il risultato di un pessimismo inguaribile e senza sbocco, il termometro di una condizione esistenziale impantanata nell’infelicità, il racconto terminale di esistenze votate e destinate ad una vita poco più che vegetativa. Dentro ci sta la freddezza dell’amicizia tra Marina e Bella, il loro antagonismo strisciante che viene fuori cattivo e improvviso, ci sta la freddezza dei rapporti sessuali tra Marina e l’ingegnere, un ancora poco noto Yorgos Lanthimos, ci stanno i corridoi desolati dell’ospedale dove è ricoverato il padre della protagonista, ci stanno anche i piani sequenza, come quello del finale, dentro i quali si legge tutta la difficile condizione dell’intero Paese. In altre parole Attenberg restituisce tratti e profili di infelicità per la quale solo qualche spiegazione ci viene offerta. Il resto, nella sua radicale presa di posizione nei confronti dell’esistenza, diventa anche struttura ontologica dentro la quale si radicano le ingiustificate sofferenze per le quali non vale quasi neppure la pena di combattere mirando ad una loro guarigione. Su questa Grecia, così distante da ogni cliché vacanziero, sembra essere discesa una lunga notte che per certi versi ancora continua nei racconti di Athina Rachel Tsangari, che resta la più pessimista tra le registe del cinema contemporaneo.