Il potere della sottomissione: a Venezia81 Nicole Kidman in Babygirl di Halina Reijn

Questione di controllo: di se stessi, degli altri, delle proprie ambizioni e delle proprie perversioni. Nulla di nuovo nella sfera della sessualità, ma Babygirl di Halina Reijn giunge in Concorso a Venezia81 griffato A24 e con la diva Nicole Kidman all’opera sulla duplice linea tematica che tiene insieme sesso e potere in versione femminile. Qualcosa di più delle solite menate sui problemi di sesso dei ricchi, almeno sulla carta… In più scrive e dirige la olandese Halina Reijn, che applica uno sguardo femminile alle questioni della sessualità deviante o estrema su cui è da sempre a suo agio, dato che in filmografia ha, come interprete e creatrice, la discussa serie Red Light e, come regista, sia Instinct che Bodies Bodies Bodies, il primo su una psichiatra criminale intrappolata in una relazione pericolosa con un assassino, il secondo su un gruppo di ricchi ventenni nel vortice di un party particolare. Babygirl giunge dunque a Venezia81 con il cartellino rosso della trasgressione annunciata, confermato sin dalla prima inquadratura che coglie in verticale il primo piano della Kidman impegnata con il marito, Antonio Banderas, a raggiungere un orgasmo che evidentemente è finto, non solo sul set ma anche nella narrazione, dal momento che, appena finito, la donna corre nella stanza accanto per completare l’opera guardando un porno su internet. Del resto se, come dice la regista presentando il film, “tutti abbiamo una piccola scatola nera piena di desideri proibiti”, non c’è dubbio che una AD di successo come Romy, dietro la facciata della manager perfetta e della mamma ideale, possa coltivare le sue perversioni.

 

 

Lei tutto sommato lo ignora, ma lo capisce bene Samuel, il giovane stagista dal setting meno altoborghese del suo che la punta sul lavoro e finisce col coinvolgerla in una relazione di sottomissione sessuale a metà tra la seduta psicanalitica, il gioco sessuale e l’ossessione morbosa. Ora, poco conta l’alternanza tra rifiuto e accettazione che governa la relazione, quel che resta è in realtà soprattutto la dinamica di purificazione dall’ossessione del controllo che il ragazzo innesca (o almeno potrebbe/vorrebbe innescare) nella donna di potere. Romy, in realtà, rischia non solo la sua vita matrimoniale, che pure non ne uscirà intatta, ma anche quella professionale, vista la giovane età di Samuel è la posizione di superiorità che la donna riveste nei suoi confronti sul lavoro. Sicché l’inversione della polarità del potere tra uomo e donna che Romy incarna sul piano sociale – che al momento giusto sarà rivendicata con orgoglio e militante scaltrezza dalla sua assistente in carriera – rischia di essere da lei stessa negata e invertita nell’accettazione del gioco di sottomissione sessuale con Samuel: che è uomo, è giovane, socialmente e professionalmente è un sottomesso e per giunta non ha alcuna mira carrieristica, alcun secondo fine che non sia l’esplorazione di una polarità sessuale opposta alla sua.

 

 

Halina Reijn procede con scaltrezza visiva su un terreno tematico che dissoda con una sceneggiatura ben organizzata, sia nella definizione dei caratteri borderline (meno in quella dei personaggi a margine, a iniziare dal marito regista intellettuale intriso di maschile correctness) che nella articolazione delle relazioni sociali lavorative. Purtroppo quello che manca a Babygirl è la capacità di cercare una reale via d’accesso alla perversione, considerato come il film non esplori mai la linea di confine del desiderio di sottomissione e si tenga ben stretto al velo di una sorta di pudicizia che risulta fastidiosa se si pretende di parlare di certe cose senza volerle ridurre a un tema scolastico. Per intenderci: ci sarebbe voluto un altro olandese come Paul Verhoeven (col quale pure la Reijn ha lavorato in Black Book) per rendere pregnante la materia. Nicole Kidman cerca una via d’accesso al personaggio tra candore d’ingenuità e stordimento del desiderio, tentando inutilmente evocazioni wide shut kubrickiane. Di gran lunga più interessante, alla fine, il Samuel di Harris Dickinson (lo ricordiamo almeno in Triangle of Sadness), che lavora sul personaggio di sicuro più valido del film con un tono introflesso e direttivo davvero ben calibrato.