Megalopolis: il cinema-mondo di Francis Ford Coppola

Camp. Cheap. Kitsch. Pulp. NeoPop. PostPunk. IperTrash. UltraArt.
Oppure: Neobarocco. Postsurrealista. Filosituazionista. Antipopulista.
Iconofilo e iconoclasta al tempo stesso.
Ma anche simultaneamente apocalittico e neofaraonico.
Come se un demiurgo lisergico, prometeico e dionisiaco
avesse cercato di riscrivere Hunger Games
mescolando lo sguardo di Abel Gance e di Peter Greenaway,
di Terry Gilliam e di Harmony Korine, di Julie Taymor e di Nicolas Winding Refn.
E quello di Fritz Lang (Metropolis) con quello di George Lucas (Star Wars).

 

 
Debordante, incontenibile, bulimico, sfrenato,
Megalopolis di Francis Ford Coppola sfida la nostra pigrizia
(e il nostro sguardo sempre più anestetizzato dal perenne ritorno dell’identico e del già goduto)
con un’opera-mondo che obbliga tutti noi a fare i conti – ancora e sempre –
con il cinema. Con quel che è stato, quello che è, quello che potrà diventare.
Cinema che va oltre il cinema. Cinema-mondo, cinema-tempo, cinema-pixel ma anche cinema-corpo, cinema-stomaco, cinema-escrescenza, cinema-sogno, cinema-delirio, cinema-kaos.
Cinema che illumina, cinema che accieca.
Cinema che prende a calci in culo Rotten Tomatoes e gli altri aggregatori di giudizi,
e che sfida i tanti critici stitici che se ne stanno rinchiusi nella loro comfort zone igienica ed asettica,
incapaci di uscire dalle loro facili formulette sentenziosamente deiettive.
Cinema che va digerito. Metabolizzato. Reimpastato.
Magari anche vomitato ma per essere ingurgitato di nuovo.
Cinema insostenibile, finalmente.

 

 
Apocalypse now trasferito a New Rome.
La dinamite e il satellite russo che piomba sui grattacieli della città e li distrugge
è come il napalm sulla giungla indocinese nell’incipit del capolavoro del 1979.
This is the End.
Allora e ora. Il sogno lungo un giorno è durato quasi mezzo secolo.
Il now di allora si invera oggi.
E lascia a bocca aperta. Senza fiato.
Storditi. Abbacinati. Ossessionati. Satolli. A tratti anche un po’ nauseati.
E tuttavia ancora affamati.
Di immagini visioni parole allucinazioni.
Ci mette tutto, Coppola, mel suo Megalopolis.
Sallustio, Ovidio, Orazio, Catullo, Virgilio, Marco Aurelio (tutti con citazioni puntuali).
Shakespeare che duetta con Cicerone.
Il caos che dilaga ma dentro una partitura di forme geometriche
(cerchi, triangoli, rettangoli, prismi)
che tornano a più riprese e danzano dentro la sarabanda dell’informe.
Split screen che divide o schermo in tre rettangoli,
come nel Napoléon di Gance.
Perché uno schermo solo non basta. Ce ne vogliono due, tre, infiniti.
Per contenere tutto. Per far vedere tutto. Per dissipare tutto.
Per sperperare. Il capitalismo che celebra se stesso
nel momento stesso in cui prefigura la propria autodistruzione.
Apoteosi del fallimento (economico) come geniale corrispettivo del trionfo (creativo).
Mega. Ultra. Post. Beyon
Scappa e sbanda da tutte le parti, Megalopolis.

 

 
Eppure un filo conduttore c’è: il tempo, l’ossessione del tempo.
Il protagonista del film, il visionario architetto Cesar Catilina
(geniale invenzione nominalistica: il costruttore di imperi, Cesar,
associato ossimoricamente al distruttore cospiratore e congiurato Catilina)
è “al tempo stesso” ossessionato dal futuro e posseduto dal passato.
Perché il tempo è il vero protagonista del cinema di Coppola.
“Now” (Apocalypse). Un sogno lungo un “giorno”.
“Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti”, dichiarava l’immortale
(e dunque fuori dal tempo…) principe Vlad alla sua amata Mina in Bram Stoker’s Dracula.
Ma poi in Peggy Sue si è sposata Coppola aveva immaginato
di far tornare la protagonista all’età dell’adolescenza,
conservando però la consapevolezza e l’esperienza degli anni maturi.
Il protagonista di Jack invece divorava il tempo e cresceva a una velocità quadrupla rispetto alla norma, (per cui a 10 anni ne dimostrava 40)
mentre in Un’altra giovinezza Coppola rielaborava un testo di Mircea Eliade
per far tornare il protagonista, ormai anziano, colpito da un fulmine,
anche fisicamente alla sua antica gioventù.
Il “tempo” trattato e messo in gioco come fosse uno “spazio” cinematografico,
da controllare e sospendere e dilatare e congelare e restringere e, soprattutto, “abitare”.

 

 
Megalopolis è una città-tempo. Architettura liquida ma congelabile.
In una delle inquadrature più belle
(belle? Megalopolis è oltre le nostre banali categorie di bello e brutto…)
un orologio di forma circolare, con i suoi ingranaggi in bella vista, incombe sulla città,
mentre l’architetto (più spericolato del suo collega protagonista di The Brutalist)
pencola su una trave sospesa nel vuoto
come gli operai che consumano il pranzo a 250 metri di altezza sopra New York
nella celebre foto anni Trenta Lunch atop a skyscraper.
Loro mangiano, lui sogna di fermare il tempo. Di freezarlo.
E poi di farlo esplodere.
Questo fa Megalopolis: mette in discussione il nostro quotidiano rapporto con il tempo.
Anche con il tempo di un film.
Ma la maggior parte di chi ne scrive e ne parla e sproloquia e stronca
Neppure fa cenno al tempo. Forse non erano attenti.
Forse non conoscono il cinema di Coppola.
O non lo ricordano.
Peggio per loro.
Non hanno capito che di fronte a un film come questo bisogna mollare gli ormeggi
e risalire la corrente, come fa Willard in Apocalypse Now,
su su su verso il cuore di tenebra del cinema,
là dove il nostro sguardo, inesorabilmente, incontrerà al tempo stesso il buio e la luce.