Mettendo mano a una ricerca sulla propria famiglia attivata dal nonno (ora in casa di riposo e con le sinapsi che funzionano a intermittenza), la barcellonese Ariadna si ritrova davanti ai resti umani di una fossa comune dell’epoca della Guerra Civile. Una delle tante recuperate in applicazione della Ley de Memoria Historica, promulgata in principio di 21º secolo, ad oggi attuata in maniera discontinua. Chiedendo informazioni sul proprio bosnonno, la donna (spigolosa, già madre, e in rapporti poco sereni con la propria genitrice) incappa nella parabola umana di Antoni Benaiges, un maestro di scuola che tra il 1935 e il 1936 lasciò la natia Tarragona per insegnare in un piccolo villaggio castigliano della provincia di Burgos, Bañuelos de Bureba. Erano i tempi della repubblica governata dal Fronte Popolare e l’uomo, che faceva professione di ateismo, esternava idee comuniste e adottava metodi di insegnamento lontani dalla tradizione, si mise da subito in contrasto con il parroco (che lo aveva preceduto in qualità di docente, con atteggiamenti opposti) e con il sindaco, mentre si rivelò forte la sintonia con gli allievi, che ne percepivano la passione e l’inusitata disponibilità al dialogo. Alunni che a un certo punto vennero conquistati anche dalla prospettiva, suggerita dall’insegnante, di vedere il mare, realtà sconosciuta a ciascuno di loro. Ma con il colpo di stato franchista, preludio al conflitto fratricida, il clima mutò all’improvviso, e il maestro “sovversivo” non potè mantenere la promessa.
Con una cornice storica che richiama quella dell’almodovariano Madres paralelas e una trama che contiene evidenti rimandi a La lengua de las mariposas di José Luis Cuerda (bella opera del 1999, ispirata da un romanzo che si focalizzava su una vicenda simile, che non ha mai avuto una distribuzione italiana nelle sale), la regista catalana Patricia Font ha costruito una storia commovente e dolorosa, dal tratto garbato, incentrata sulla (vera) vicenda umana di Benaiges, che nell’insegnamento applicava il “metodo naturale” – agile, cooperativo e imperniato sui bisogni degli alunni – elaborato dal pedagogista Célestin Freinet, che era assolutamente contrario a qualunque forma di castigo e repressione nei confronti dei bambini, accessori ritenuti per contro imprescindibili nelle rigide procedure di formazione scolastica del tempo. Baciato da un successo inatteso in Spagna, Il maestro che promise il mare è latore di un messaggio universale sul versante didattico e mostra un’esposizione nitida, che esplicita la propria voglia di testimonianza saldando passato e presente attraverso il collante della tolleranza e del rispetto delle idee, contrapposte alla brutalità del sopruso. Un racconto di formazione che funziona bene proprio per la sua immediatezza e che in patria ha intercettato l’urgenza diffusa di far luce su un periodo la cui memoria venne seppellita insieme ai corpi di chi dissentiva. Ciò che non pare all’altezza della “missione” è invece l’estetica del film, sebbene abbia senz’altro contribuito alla sua popolarità in virtù di un’ammiccante gradevolezza.
Ci troviamo di fronte a una confezione oleografica, in cui forse solo l’iperluminosità della fotografia può trovare una giustificazione quale corrispettivo formale all’azione illuministicamente destabilizzante del maestro. Ma non c’è un livello di astrazione tale da arrivare a configurare una sorta di fiaba fuori dal tempo che si svincoli apertamente dal reale (come in buona parte faceva La lengua de las mariposas); e se i simboli restano comunque limpidamente chiari, si affievolisce nel complesso l’efficacia storica dell’affresco. Che tuttavia recupera asciuttezza in alcuni passaggi, come nel finale, dove registra l’impotenza di fronte alla violenza annichilente e la fine di un sogno, ma al contempo pone in risalto che dimenticare (come rimuovere, come chiudere gli occhi per non vedere) agevola il riproporsi di certe situazioni aberranti, porre rimedio alle quali risulta poi sempre difficile. Molto meglio la versione originale rispetto alla doppiata: salvo quella (versatile ma misurata) di Andrea Oldani per il protagonista maschile (lo splendido Enric Auquer), le voci italiane enfatizzano i toni, aggiungendo artificiosità a dialoghi che dovrebbero essere percorsi dalla leggerezza evocata (e incarnata) dal maestro Benaiges.