La deriva e la stagnazione in La cosa migliore, di Federico Ferrone

Mattia ha 17 anni e una sera, dopo un diverbio violento con un altro gruppo di giovani per questioni di denaro, nella fuga in moto il fratello maggiore resta ucciso in un incidente. Da quel giorno la vita di Mattia cambierà per sempre. Abbandonerà la scuola e prenderà il posto del fratello nella piccola fabbrica locale in questo luogo imprecisato di un nord Italia post-industriale. L’incontro occasionale con Laura, una ex ragazza del fratello scomparso, non gli cambierà la vita e farà amicizia con Murad, un giovane marocchino collega di fabbrica. Conosce anche il fratello di Murad, Rashid che è un universitario e sembra bene integrato nell’ambiente. Si avvicina all’Islam e comincia a frequentare la moschea. In famiglia le cose non vanno bene e lo scontro con il padre è bilanciato dalle attenzioni della madre. Dopo un viaggio in Marocco con i due fratelli, la vita di Mattia prenderà un’altra piega che lo isolerà dal mondo in bilico tra solitudine e desiderio di annientamento. Forse sarà l’amicizia a salvarlo. Ferroni racconta una storia di progressivo isolamento, del crearsi una solitudine che diventa sempre più forte e non risolvibile. Mattia sembra rifiutare tutto quello che gli appartiene dalla famiglia alla scuola, dal lavoro al desiderio di una relazione. Mattia è un personaggio che vive nella speranza di qualcosa che gli possa fare mutare la sua condizione e spera di trovare questa soluzione nella conversione all’Islam.

 

 
Purtroppo questo racconto sembra essere denervato, privo di quel mordente necessario per raccontare una rabbia connaturata e priva di una sua vera origine, almeno il film non ce la racconta, resta nella superficie di un carattere introverso e lontano da ogni aspirazione. Non c’è quasi dramma nel film e nella sua forma di pacato racconto quotidiano, scosso soltanto dal viaggio in Marocco, assomiglia ad una narrazione diaristica nella quale però le emozioni restano filtrate e messe in un fuori campo lontano dalla scena. La cosa migliore sembra che piuttosto che riscaldare il rapporto con lo spettatore, per la vicenda di un ragazzo che si trova – non si comprende bene neppure come – catapultato al centro di una lotta armata, di una violenza che non gli appartiene, voglia raffreddarne ogni relazione lasciando ancora più solo il protagonista. Tutto questo nuoce inevitabilmente al film che resta distante da ogni empatia, tutto racchiuso in un mondo che diventa estraneo e la vicenda di Mattia resta non percepibile nella sua intima drammaticità. A questo si aggiunga un ambiente familiare nel quale la disgrazia della morte del figlio maggiore ha acuito gli scontri con il più giovane, soprattutto paterni per il genitore che non sa spiegarsi la rabbia del figlio. Il padre è Fabrizio Ferracane ormai abituato ai ruoli di padre introverso e in eterno scontro con i figli (a quando un ruolo anche divertente per lui?). Se dunque il film voleva essere il racconto di una lenta deriva di Mattia verso una violenza distante dalla sua cultura tutto sembra restare esterno al film che procede come un fiume troppo lento e a volte quasi stagnante.