Day of the Fight era il titolo del primo film di Stanley Kubrick, un corto documentario – ancora largamente basato sulla sua attività da fotografo – che seguiva la preparazione di un incontro (del peso medio Walter Cartier, un perfetto sconosciuto) ripercorrendo le tappe antecedenti al match, i momenti privati, lo sguardo attento ma distante di un pugile in attesa di combattere. Senza temere confronti, con una sfrontatezza che sfiora il coraggio, Jack Huston (nipote del grande John, autore di quello che forse è – assieme a Toro scatenato – il più bel film sulla boxe di sempre, Città amara) costruisce nel suo film che da Kubrick prende (ruba?) il titolo la struttura ondivaga, la ricerca di una naturalezza fuori fase, lo spirito di un quotidiano ancora tutto da riconquistare. Mike Flanagan è un uomo spezzato, avanzo – letteralmente – di galera, ributtato (rivomitato) in un mondo che non riconosce e da cui cerca pietà. Irlandese, di natura ubriacone, di indole instabile, di carattere violento: esce di prigione e ha un’inattesa, forse predestinata, possibilità di redenzione. Ha un giorno, prima del suo combattimento serale organizzato chissà come e da chissà chi, per fare un po’ di conti con il proprio passato. Huston quantomeno non bluffa, carica da subito il proprio protagonista di un’aura cristologica. Mike ha una colpa inestirpabile da farsi perdonare, e il primo a non perdonarsi è lui stesso. Inizia quindi una giornata che si struttura – pedissequamente – come una via crucis. Diretto al suo (ultimo?) incontro, cerca conforto o confidenza nel contatto con le figure significative della sua vita in cui cerca, forse senza successo, uno specchio di sé.
Antichi sodali: una vecchia conoscenza che lo conosce meglio di sé stesso, un prete amico che lo incita al cambiamento, una compagna – e una figlia – abbandonate anni prima nel dolore e nello stordimento, il padre ormai incosciente caricato di ricordi e di rimpianti, il vecchio allenatore che ancora confida in lui. Il racconto di Huston accompagna la parabola cristologica del suo protagonista smussando gli eccessi ma enfatizzando con la musica i momenti di climax, affogando Mike nei bianchi e neri – certo fascinosi ma alquanto derivativi – di una New York senza tempo e, a tratti, senza spazio. Mike è un’anima in pena, in cerca di un’impossibile redenzione: le colpe sono senza perdono, la resurrezione è senza pace, l’idea di un successo nell’incontro decisivo è un’ipotesi lontana e in fondo non risolutiva. Day of the Fight è, paradossalmente, un tentativo di descrivere il coming of age di un uomo adulto, ormai perso ma deciso a fare i conti con i propri limiti e con i propri fantasmi. Mike (un Michael Pitt redivivo, pronto a disegnare con carica emotiva sempre fin troppo calcata quella che, banalmente, si considera “la parte della vita”) è un corpo che cerca di riconnettersi alla propria anima, un uomo che scandaglia le proprie profondità (e le proprie fragilità) sapendo che nella vita sa fare soltanto una cosa: menare ed essere menato.
Un film di corpi quindi – di un corpo destinato ai cazzotti, picchiato, sanguinante e per questo reso quasi astratto – come sempre finiscono a essere i film sulla boxe, che contengono in sé un ring che è la sublimazione di un’inquadratura, di un fotogramma. Il problema di Huston – e di Day of the Fight – è il sapore che trasmette, fatto di derivazioni (cosa abbastanza ovvia) ma anche di enfasi retorica che si spegne nelle scelte musicali, nell’episodicità dei momenti chiave, nella distillazione programmata dei sentimenti. Resta negli occhi il fascino di una città – di un cinema – capace di fissarsi negli occhi travalicando il tempo; il gusto di un film “bignamesco”, che rilegge i canoni del genere per provare a riproporli con vestiti nuovi, che però sanno di “usato”; una (ri)rivelazione sulla capacità che il pugilato, al cinema, sappia sfiorare tasti infiniti perché, simbolicamente, parla di una lotta atavica, brutale ma in fondo intimissima, tra noi e l’avversario che possiamo immaginarci, quello che ci pensiamo di meritarci. Day of the Fight è in fondo un omaggio forse fuori tempo; un’ipotesi di rivalsa intriso di troppa retorica – che sfiora il kitsch, come scrive Roberto Manassero – e nutrito di troppa ovvietà di cinema. Un film che da un lato lascia perplessi ma che, va detto, stimola un lato a volte sconnesso della nostra affettività cinematografica, portandoci, come con un riflesso pavloviano, a specchiarci nelle sue immagini.