“Perché tutto sia consumato, perché io sia meno solo, mi resta da augurarmi che ci siano molti spettatori il giorno della mia esecuzione e che mi accolgano con grida d’odio”
Non deve meravigliare il fatto che François Ozon abbia scelto la trasposizione ardita di un’opera monumentale come Lo straniero di Camus per realizzare il suo ventiquattresimo lungometraggio, presentato in Concorso a Venezia 82. Soprattutto se si tiene in considerazione il suo eclettismo e quanto espresso nel suo precedente Sotto le foglie, titolo che in italiano perdeva l’efficacia dell’espressione originale Quand vient l’automne riferendosi a un moto perpetuo e uniforme, inesorabile, fatto di cadute e cambiamenti. In maniera ancora più ampia, se si guarda con attenzione alla sua variegata filmografia sempre esposta verso la rappresentazione di un’umanità non risolvibile da facili schemi, per nulla incline alle derive del manicheismo, imprevedibile e lacerata dal cinismo, inoltre, questo suo ultimo lungometraggio, adattamento dell’opera camusiana rispettoso dei canoni dell’epoca in cui è ambientata la vicenda in un rigoroso ed elegante e coerente bianco e nero, conferma che il suo cinema è votato ad inseguire una domanda di senso che si manifesta sempre come urgente appello di giustizia.

Razionale, geometrico, assoluto, il cinema di Ozon tende a seguire un ordine che vuole scoperchiare il caos che tutto governa e la mancanza di senso che innerva il racconto di Camus, il profondo e lacerante vissuto solitario del suo protagonista, altro non è che la diretta conseguenza di una traiettoria temporale a ritroso, nelle emozioni perdute, alla ricerca della verità di legami autentici e necessari, ma anche un’attenta disamina e rilettura in chiave socio-politica del periodo coloniale. Proprio dentro il fluire del tempo, attraverso l’astrazione di un tempo che non c’è più e forse non c’è mai stato si dipana il nucleo narrativo su cui tutto il cinema di Ozon si fonda e a cui tende; tempo inteso come forza che attrae e respinge, elemento che scorre e sradica, travolge, irrompe nella fitta trama dell’umana esperienza incarnata dai personaggi delle sue vicende, sia che si ritrovino nei pressi dell’autunno della vita, sia che percepiscano tutto l’ardore della giovinezza, come appunto il protagonista del suo ultimo film. Adulto sì ma ancora fresco, anello mancante di una lunga catena di profili analoghi che hanno costellato la filmografia del regista francese.

Si riprenda la trilogia del lutto (Sotto la sabbia, Il tempo che resta, Il rifugio) o un titolo esemplare sul piano teorico come Swimming pool, ma anche le evasioni nel grottesco e nella commedia, a loro modo paradigmatici per come riflettevano sulle immagini del rapporto tra carne e morte, tensione e desiderio, presenza e assenza, potere e libertà. Proprio in Swimming pool, la freddezza e il disincanto della conturbante Julie interpretata da Ludivine Sagnier (che poi è anche la figlia di Michelle in Sotto le foglie, e sappiamo bene la fine che le spetta – il caso!) mettevano in crisi le certezze e il senso della vita della scrittrice Sarah (Charlotte Rampling), disposta a farsi piegare dalla disinvoltura della giovane, tanto deviata da un irresistibile fascino quanto impaurita dalla visione di un corpo ancora inscalfibile dal tempo. Il Meursault di Ozon assume il volto di Benjamin Voisin, già apprezzato protagonista in Estate ’85, già portatore di un disagio esistenziale analogo nel recente Noi e loro, capace di restituire con nettezza la modestia e la tranquillità che definiscono il personaggio di Camus nella Algeri del 1938. Ozon ha dichiarato di essersi voluto immergere in L’Étranger per riconnettersi con una parte dimenticata della sua storia personale poiché «il nonno materno era giudice istruttore a Bône (oggi Annaba), in Algeria, e nel 1956 era sfuggito a un attacco, evento che aveva accelerato il ritorno della mia famiglia nella Francia continentale. Lavorando su documenti e archivi, e incontrando storici e testimoni dell’epoca, mi sono reso conto di quanto tutte le famiglie francesi abbiano un legame con l’Algeria, e di quanto pesi il silenzio che spesso grava ancora sulla nostra storia comune».

Il legame con l’opera originaria è quindi duplice, sia per come permea il proprio cinema facendosi segno e senso, sia per come rispecchia una condizione personale che dal particolare guarda all’universale. Non solo. La traduzione molto fedele, benché assimilabile come rilettura di una contemporaneità lacerata senza smarrire la sua potenza, proietta il film in una dimensione altra, capace di raccogliere e sintetizzare le istanze letterarie, cinematografiche e artistiche del Novecento. I conflitti morali di Dreyer, Bresson e Bergman, le passeggiate dell’Accattone di Pasolini, i tagli di luce di De Chirico, la pittura metafisica, gli affondi di Dostoevskij, tutto è riconducibile all’itinerario vissuto da Meursault, uomo spezzato, mai risolto, irrisolvibile, come dimostra quel paio di inquadrature che lo immortalano nella sua tragica disillusione e solitudine, diviso, distante dai corpi di chi lo cerca e lo ama: quella volta sulle scale con il padrone del cane, quell’altra sull’autobus al fianco di Marie. Inquietudine e rassegnazione che Meursault non riesce a respingere, tradendo una disarmante fragilità proprio nelle sequenze più potenti: quella del sogno-incontro con la madre defunta e quella della lotta identitaria contro il prete, in carcere, prima della sentenza definitiva dove riconosce la propria incapacità a fare i conti con i propri limiti umani. E sì, è questo, oggi più che mai, il male di vivere che un’opera come Lo straniero riesce ancora a comunicare.


