Carol Aird è una donna ricca e metropolitana, sufficientemente algida, apparentemente calata alla perfezione in un abito sociale che le calza a pennello. Therese Belivet è una giovane provinciale, irruenta in modo pacato, con i grandi occhi spalancati che scrutano intorno per assorbire la vitalità della grande città. Entrambe portano dentro, ben nascosta, un’insoddisfazione che riguarda la percezione del loro posto nel mondo. Carol è alle prese con un divorzio doloroso e un marito che cerca di tenerla a sé con la minaccia di una figlia adorata da sottrarle; Therese lavora in un grande magazzino ma sogna una vita da fotografa, ha un fidanzato ma cerca un’idea di libertà cui non sa ancora dare forma. L’incontro di queste due donne in un momento di trasformazione accende, oltre all’attrazione fisica, una scintilla di riconoscimento che parla di affermazione di sé e di conquista di spazio in una società impermeabile che espelle chi non si uniforma. Carol inizia con il dettaglio di un tombino da cui la macchina da presa si alza per iniziare un suadente piano sequenza attraverso le strade di New York.
Todd Haynes, già dalla prima inquadratura, si mischia alla folla per cercare l’oggetto della sua storia, sembra sollevarsi dal livello del marciapiede sospinto da un vento che costringe al movimento, si addentra nella hall di un ristorante elegante per presentare le due protagoniste che entrano in scena attraverso lo sguardo di un uomo che le osserva. L’inizio è in realtà la fine della storia: come Carol e Therese sono arrivate a quel tavolo lo scopriremo dopo. Ma è da quello sguardo esterno, spesso giudicante, ancor più spesso incapace di comprendere, che Haynes cerca di liberare i suoi personaggi. Tra i rimproveri più frequenti che sono stati fatti a questo magnifico film senza tempo – benché perfettamente compiuto nella sua ricostruzione d’epoca – e senza storia – perché la storia sono loro, Carol e Therese – ci sono l’eccessiva “magrezza” narrativa e la rievocazione di un tempo (o, meglio ancora, di un cinema) costruita troppo in superficie. Ma Carol è, ancor meno di Lontano dal paradiso, tutto fuorché un’opera di citazionismo decorativo. Il tempo, così perfettamente ricostruito fin nelle nuances degli arredi, degli abiti, delle carte da parati, è sempre un tempo assoluto in cui le protagoniste si trovano costrette, intagliate, incastrate. L’elemento scenografico crea immagini esemplari pronte a definire un passato che si trasforma invece in un presente assoluto, in cui i sentimenti soffocati cercano aria. L’amore lesbico – che è simbolo perfetto di un riconoscimento sociale e affettivo che non arriva mai – è la valvola di sfogo di una costante ricerca di una più compiuta percezione sé, motore dei personaggi in quell’America lucida degli anni Cinquanta, cartolina patinata che sa trasformarsi in gabbia. Carol racconta a suo modo una privata guerra d’indipendenza e lo fa trasformando una storia semplice con le armi purissime della messa in scena. Haynes segue Carol e Therese attraverso fumi e vetri, finestrini e salotti, ingabbiando e liberando le sue protagoniste, frapponendo tra loro e il mondo esterno superfici traslucide e impenetrabili, accompagnando la loro avventura con temi ultraromantici – la musica di Carter Burwell – e le luci morbide, vellutate, implacabili della fotografia di Ed Lachman, definendo l’empatia senza appoggiarsi a un sentimentalismo melodrammatico.
Haynes reinventa l’osservazione attraverso la semplicità: da anni non si vedeva un uso così fluidamente grammaticale del classico campo/controcampo, capace di creare, nelle scene pubbliche ambientate in ristoranti e negozi, un’intimità quasi contundente. E poi, ovviamente, la direzione delle attrici: Cate Blanchett e Rooney Mara rendono ogni sottile scambio di sguardi (perché Carol è un film essenzialmente fatto di sguardi, di occhi), ogni sommesso sfiorarsi, ogni timido sorriso un concentrato di verità nascoste. Carol in fondo racconta lo sforzo di emergere di due donne dall’apnea di un mondo maschile e chiuso mentre Haynes reinventa il passato per guardare al presente e al futuro, e torna a pensare il cinema come la più analitica delle chiavi d’interpretazione del reale con le sue molteplici varianti e dell’amore, il più puro di tutti i significati.