Se partiamo dal titolo italiano, Mózes, il pesce e la colomba, l’opera prima della regista ungherese Virág Zomborácz (nel suo passato molti premi per i precedenti cortometraggi, un lavoro come sceneggiatrice nelle serie televisive della HBO ungherese, fino al premio come miglior film al Bergamo Film Meeting dello scorso anno con questo suo esordio nel lungometraggio), enuncia in poche parole il suo tono fiabesco, ai limiti del surreale, di un racconto ambientato in una piccola comunità governata da strane regole di convivenza e da schizofrenie collettive, più o meno subliminali. Mózes è un ventenne appena uscito da una clinica psichiatrica. Il suo problema sono le relazioni sociali e quindi, più nel profondo, uno stare nel mondo che lui realizza in modo più eccentrico dagli altri. Questione di come si vogliono vedere le cose, e il giovane laureato in teologia sa bene quello che vuole. Sono gli altri a non aver ancora trovato la prospettiva in cui inquadrarlo, nella sua attitudine anticonformista e ingenua. Così viene relegato nei ruolo dello squinternato, da tenere lontano e in poca considerazione. “Commedia di formazione che, invece di affrontare i conflitti sociali, guarda principalmente all’individuo e alle istanze della psiche umana” dice Zomborácz che, infatti, in questo caleidoscopio di possibilità, pone al centro del discorso il “rapporto padre-figlio e la famiglia, la mutazione dei valori tradizionali e la possibilità di comunicazione”.
Necessario, quindi, mettere in rilievo gli attori, filmarli come fossero misteri da svelare, oggetti imprevedibili da cui farsi affascinare e capaci di riempire con ogni lieve gesto, l’immagine e la scena. Un film basato non tanto sulla recitazione, però, quanto sul modo di disporre i personaggi nello spazio e nella narrazione, e farli muovere fino a creare connessioni e reazioni che di fatto portano la stessa storia a progredire. Ecco così, che cambiano nel corso del film, le distenze, mentre le inquadrature si ampliano e assumono forma fluida. Si passa da un montaggio secco di inquadrature fisse, a sequenze mobili, quasi sinuose, ammorbidite dalla ripetitività ipnotica della musica. Mentre gli occhi di Mózes osservano tutto con insolita vivacità. Il suo problema è liberarsi del fantasma del padre, pastore protestante, con lui severo e irragionevole, che non sembra essersi accorto dell’infarto che l’ha colto all’improvvisto e ora si aggira, immemore e infantile, attorno al figlio. Non si tratta di un’inversione dei ruoli, quanto di un leggero stratagemma per dire dei cambiamenti che a volte siamo costretti a subire. E per non accettare di adeguarsi a certe regole, si capovolge il punto di vista. così il figlio, tanto ferito dal disinteresse del padre, finisce per occuparsi del lavoro del genitore, portando a termine le cose da lui non finite ed esplorando i suoi schemi consumati per uscire dall’incantesimo. Sembra un’antica favola russa, dove l’eroe, descritto soprattutto nelle sue insicurezze, riesce a disinnescare i meccanismi che lo bloccavano, capovolge letteralmente le cose, entra nello specchio e rinomina le cose del suo mondo con altre parole e altri occhi. A questo servono oggetti, animali ed elementi che fanno la loro comparsa: il fuoco, il pesce, la colomba, il corvo ritrovato senza vita dalla piccola sorella adottiva. Tutti segni di un viaggio a ritroso sui nostri passi, che ci porta a riavvolgere il nastro di una vita che sta per cambiare.