Il palo che sta all’incrocio tra la 64ma Strada e Martin Luther King jr. Drive segna la toponomastica di Chicago in una maniera particolare. È quello il punto della città in cui è più frequente si registrino sparatorie: nel solo periodo tra giugno 2011 e giugno 2014, per esempio, lì sono state ferite diciannove persone, due mortalmente. Ed è esattamente quello il punto dove la scrittrice e drammaturga Antoinette Nwandu ha piazzato il baricentro di Moses e Kitch, i due neri protagonisti del suo dramma Pass Over, andato in scena nel 2017 allo Steppenwolf Theatre di Chicago e divenuto ben presto uno dei casi della stagione teatrale off americana di quell’anno. Il concept è di immediata riconoscibilità beckettiana: come prendere il paradigma godotiano dell’attesa e metterlo addosso a un paio di neri del quartiere black più povero di Chicago (la toponomastica di riferimento è quella di Woodlawn, nel sud della città: densità di neri pari al 98% della popolazione…). Al posto dell’albero, un palo con i cartelli di Martin Luther King jr. Drive e della 64ma Strada, sotto il quale Moses e Kitch – più affilato il primo, più sempliciotto il secondo – sono metaforicamente bloccati: non tanto sull’attesa, quanto sul sogno di un altrove migliore dove andare finalmente a vivere. Una ideale terra promessa da attraversare, Moses col suo biblico nome alla guida di Kitch, suo fraterno amico, punto di fuga per l’altro referente letterario dichiarato da Antoinette Nwandu: l’Esodo.
Tutta materia per una drammaturgia calda, sul piano umano e su quello sociale, che non poteva sfuggire all’attenzione militante di Spike Lee. Il quale, infatti, l’anno successivo si reca a Chicago avendo in tasca un accordo con gli Amazon Studios (che qualche anno prima gli hanno prodotto l’ottimo Chi-Raq) e realizza la ripresa cinematografica di Pass Over proprio lì, allo Steppenwolf Theatre, basandosi sulla regia teatrale di Danya Taymor e lavorando sulle incredibili performance dei due interpreti originari: Jon Michael Hill (che poi troveremo in Widows di Steve McQueen), un Moses tonico nel suo destino di sconfitta, e l’ancor più interessante Julian Parker (nel frattempo scritturato per la serie all black The Chi di Lena Waithe, ambientata nello stesso quartiere di Chicago), che è un Kitch più docile nella classica dinamica da black buddy. Ma l’impianto scenografico non è l’unica prospettiva scelta da Spike Lee: se il dramma che si svolge sul palcoscenico si concentra sulla striscia d’asfalto, su qualche palo della luce e sui due cartelli dell’incrocio sotto i quali il destino di Moses e Kitch resta bloccato, il regista non rinuncia al grumo d’umanità che nutre quel quartiere. E così decide di aprire e chiudere il film sugli spettatori dello spettacolo: tutti neri, che vengono portati allo Steppenwolf a bordo di un bus (Get on the Bus, ovviamente… ) prendono posto in sala e assistono al dramma. Sono loro il vero punto di fuga che interessa Spike Lee, l’autentico Pass Over, l’attraversamento del film, contemplato più e più volte mentre in scena Moses e Kitch si stringono nel loro destino. La regia cinematografica segue dinamicamente quella teatrale, che, forte di due interpreti straordinari, lavora di ritmica, di stop and go fisici e dialogici, mentre in scena subentra ora il poliziotto che segna il destino, ora il passante che sancisce lo stigma razziale: entrambi bianchi, entrambi portatori di paura per i due neri che sognano una via di fuga. E se il finale in scena è quello che è, agghiacciato nel ritorno all’ordine sociale costituito, il postfinale garantito da Spike Lee al suo film (che si può vedere già da tempo su Amazon Prime) segue l’onda di ritorno per strada degli spettatori, in un accavallarsi di rushes prese dal casting, che offrono un magnifico flusso d’umanità, tenuto insieme dal brano di Sampha (No One Knows Me) Like the Piano. Un mashup di volti, figure, presenze, t-shirt, capigliature che offre uno straordinario controcampo muto al flusso ritmico di parole che ha segnato in scena il duetto tra Moses e Kitch, tutto giocato sull’altra frequenza dello slang dei neri, a partire proprio da quel “nigger” che i due si rimpallano e che in bocca al bianco Mister (Ryan Hallahan) diventa il vero e proprio baricentro del cambio di prospettiva.