Intimità diffusa: The Blaze tra sonorità e immagini

Lo skyline è quello di New York ma, nonostante la patinatura in quota Dior Perfumes, l’approccio è coerente con lo stile The Blaze, il duo videomusicale francese che l’ha diretto. In scena non c’è il meticciato tipico dei loro video, ma Robert Pattinson, al solito stilosamente stropicciato, è comunque un corpo in libertà, sospeso tra shadowboxing e ballo, spinto tra ristoranti chic, panchine sul mare e vicoli notturni, e stretto nell’abbraccio musicale del Leonard Cohen di I’m your man.

 

 

Lo spot Dior Homme gira in realtà dallo scorso gennaio, ma resta un buon gancio per entrare in contatto con The Blaze, con il senso vorticoso dello spazio e la sensualità corale e condivisa dei corpi che appartiene al loro sguardo. Nei loro video storie d’intimità diffusa, amicizia e amori in transito tra interni d’affetto e esterni d’intrusione, una coralità che vagheggia scenari familiari allargati, amichevoli branchi che stanno tra il gruppo e la crew, una virilità androgina in cui danza e lotta giocosa si sommano nell’espressione di una storia comune fatta prevalentemente di corpi che si agitano o giacciono con la medesima idea di sospensione esistenziale. Guillaume e Jonathan Alric sono due cugini, un po’ meno di una decina d’anni d’età di differenza tra il primo e il secondo. Dal 2016 sono The Blaze, un progetto videomusicale che ha una sua identità molto precisa, in cui intrecciano sonorità e visioni, azzerando qualsiasi funzione ancillare tra l’una e l’altra. Nei loro video lo spazio dell’integrazione tra musica e immagini è quasi tangibile e nasce dalle ragioni stesse per cui questi due artisti si sono trovati: Guillaume, il maggiore, viene dalla Borgogna, ha studiato fotografia ma si è ben presto dedicato alla musica, pubblicando col nome Maÿd Hubb sino a quando non ha ritrovato il cugino Jonathan, che invece ha una storia più meticcia, essendo nato in Costa d’Avorio, cresciuto in Normandia e in Perù e avendo vissuto e studiato cinema a Bruxelles. Insieme danno vita un po’ per caso al progetto The Blaze: Jonathan ha finito gli studi di cinema, ha in tasca 100 euro per girare un videoclip e allora chiede al cugino di lavorare su un suo brano. Nasce così Virile, il primo singolo di The Blaze: poco meno di 5 minuti che nel 2016 si impongono su YouTube con la forza di “un brano malinconico ai confini tra house e pop”, dicono Les Inrockuptibles. In scena due amici, arabi, in un appartamento con una grande finestra a vetro che dà sulla notte di Bruxelles: rollare una canna, la musica che parte, il ritmo prende i corpi, il fumo diffonde la gioia nei gesti, spinte e abbracci, shadowboxing e danza. E lo shotgun spinge il fumo di bocca in bocca…

 

 

Let’s quit fooling around, I’m into you taken by the sound. ‘Cause you’re the love I found … When you hold me I’m alive and I’m sure when I say you’re the best friend of my life: il testo sospende sul vocoder la storia di un’amicizia stretta nell’abbraccio di un’intesa dei sentimenti che passa attraverso la ritualità del gesti e la forza concreta dei corpi. Qualcuno parla di bromance, ma qui in ballo c’è piuttosto il senso della comunione fisica degli affetti proprio della cultura araba, in cui il contatto tra i corpi è un passaggio d’umanità, espressione di un’intimità sociale, di una comunione che è condivisione di spazi, emozioni, momenti. È il tema che The Blaze sviluppa in tutti i suoi progetti successivi, tutte storie che esprimono la complicità di un’appartenenza diffusa, corale, comunitaria. Il successivo Territory è perfettamente in linea con questa idea visiva e sonora: girato ad Algeri, storia di un ritorno a casa, la presenza fremente del giovane Dali Benssalah alle prese con abbracci in famiglia, danze e lotte virili sulle terrazze della città con gli amici, narghilè condivisi, corse sulla spiaggia, un po’ Antoine Doinel un po’ Beau travail…

 

 

Il video ha una potenza molto immediata, funziona soprattutto per risonanze e assonanze, dove a funzionare sono il senso di appartenenza e il piacere di condividere momenti, gesti, emozioni: insomma, tutto ciò che loro direbbero kiffer… Lo schema visivo lavora sulla contrapposizione tra avvitamenti visivi e prospettive di fuga dei corpi, in una ritmica che allinea l’armonia sulla portante evocativa del tema del ritorno (We’ve waited for this day, We shared some tears of love now). La figura retorica dell’avvitamento tra macchina da presa e figure, a definire una spazialità dell’esistere che materializza la libertà dell’intesa, è la linea visiva portante e ritorna con una fluidità che insegue lo spazio anche nei loro due video successivi, rilasciati nel 2018: Heaven è un flusso di libertà che segue la danza euforica di un giovane padre immerso nella sua comunità di amici, un déjeuner sur l’herbe scritto sui corpi di una gioventù multietnica stesa ai piedi di un grande albero.

 

 

Un verseggiare primaverile con l’idea di un futuro da attendere che trova la sua controbattuta nel successivo Queens, che invece parte da una veglia funebre per celebrare la memoria di una vita d’amore e gioia, in cui torna la poetica del contrasto, l’espressione di quella androgina virilità (qui le protagoniste sono per la prima volta due donne) fatta di corpo potenti, di intrecci tra dolcezza e violenza in cui si esprime l’idea di crew.