Ne parla come di “un veggente pop, incompreso ai suoi contemporanei, che arrivò ad affermare di parlare agli uomini del Duemila”, ma l’urgenza con cui Sergio Rubini spinge il suo Giacomo Leopardi nella nostra contemporaneità è qualcosa in più della pur comprensibile esigenza di comunicare oggi una figura che si porta dietro le stimmate scolastiche del pessimismo cosmico e della Natura matrigna… Il suo cinema in realtà ha sempre guardato ai piccoli eroi emarginati nella quotidianità come a dei veggenti, degli illuminati che guardano alla miseria circostante e la comprendono così a fondo da accendere bagliori di salvezza e si capisce che a Rubini ciò che interessa di Leopardi è proprio la sua aura da piccolo grande uomo, il coraggio del suo pensiero, la forza dei suoi slanci poetici e intellettuali. È in questa luce che va visto Leopardi – Il poeta dell’Infinito, la miniserie evento di Rai 1 (in onda il 7 e l’8 gennaio dopo il passaggio all’ultima Mostra del Cinema di Venezia), due parti costruite da Rubini assieme ai cosceneggiatori Angelo Pasquini e Carla Cavalluzzi con un approccio alla materia caldo, appassionato. Si potrebbe anche dire passionale, visto che la narrazione leopardiana che viene fuori è sostanzialmente una grande storia d’amore, che unisce Leopardi all’amicizia di Antonio Ranieri (Cristiano Caccamo) e alla nobildonna Fanny Torgioni Tozzetti (Giusy Buscemi), di cui il giovane poeta è innamorato in una maniera introflessa, inconfessata. Sin dall’incipit Rubini sceglie un affondo quasi romantico, con l’arrivo notturno della salma di Leopardi nella chiesa, portata in gran segreto dal fedele Ranieri, custode dei suoi giorni più felici, per convincere il sacerdote a dare cristiana sepoltura allo scomunicato poeta.
Da questa prospettiva Rubini ricostruisce l’infanzia e la giovinezza di Leopardi a Recanati, i rapporti con il padre Monaldo (Alessio Boni), che lo spinge con amorevole orgoglio agli studi nella sua biblioteca, e con la rigida madre (Valentina Cervi), che vive all’ombra di una fede quasi penitenziale. Qui Rubini sceglie un approccio che sta tra il romanzo gotico e il dramma storico, affrontando i tormenti del giovane poeta, il suo dibattersi tra la costrizione familiare e l’urgenza di aprirsi alla vita, facendone quasi un eroe adolescenziale che affronta la vita con lo spirito libertario proprio di ogni giovane. Nella seconda parte, invece, Rubini si spinge in una dimensione più solare, in cui, sempre attraverso la narrazione di Ranieri, ricostruisce gli anni fiorentini e napoletani di Leopardi durante un incontro chiarificatore con Fanny Targioni Tozzetti. Qui emerge un approccio più sentimentale alla figura leopardiana, il romanticismo negato di un innamoramento impossibile, il mistero delle lettere d’amore scritte dal poeta.
Insomma, pur aderendo agli schemi della produzione televisiva contemporanea, che spinge gli autori alla semplificazione, Leopardi – Il poeta dell’Infinito offre a Rubini la possibilità di realizzare un progetto che sente fortemente suo (lo coltiva da 25 anni e in origine avrebbe voluto interpretare lui stesso il poeta) e che tocca corde concrete del suo cinema: l’amore impossibile, lo scontro tra cuore e intelletto, i limiti posti dalla società alla realizzazione dell’individuo. La questione della spiritualità del poeta, il suo rapporto conflittuale con la fede e soprattutto con la chiesa riflettono questi ambiti e li storicizzano in una messa in scena che sa essere accurata e a tratti intensa. La semplicità con cui Leonardo Maltese rende conto dell’entusiasmo di Leopardi sostiene la rappresentazione immediata del poeta cercata da Rubini, che ha scelto di ignorare la classica raffigurazione fisica del giovane ingobbito dagli studi. L’intento preciso della sua operazione è quello di lavorare sul portato positivo, libertario, felice di Leopardi: “La sua più grande preoccupazione è sempre stata il singolo felice”.
Leopardi – Poeta dell’infinito su Raiplay