Per più di 50 anni Vivian Maier (1926-2009) ha fotografato per passione. Mai una mostra, mai una pubblicazione. Nessuna velleità di fare conoscere il suo lavoro. Vi sembra possibile che una bambinaia per famiglie benestanti di New York e Chicago possa coltivare sogni artistici? Ma non scherziamo, meglio non farsi notare. Però lei per oltre cinque decadi ha fotografato la vita nelle strade delle città in cui ha vissuto senza mai farsi notare. Le piaceva raccontare ciò che vedeva, senza pretese. Piccole storie che questa Emily Dickinson della fotografia amava conservare solo per sé. Un lavoro immane testimoniato dallo sterminato archivio che ha lasciato: più di 150.000 negativi, una miriade di pellicole non sviluppate, stampe, film in super 8 o 16 millimetri, registrazioni, appunti e altri documenti di vario genere che la tata “francese” (la madre era originaria delle Alpi provenzali) accumulava nelle stanze in cui si trovava a vivere, custodendo tutto con grande gelosia. Chiuso infine in un magazzino, il materiale è stato confiscato nel 2007, per il mancato pagamento dell’affitto, e quindi scoperto e acquistato per 380 dollari dal giornalista John Maloof in una casa d’aste durante una ricerca di materiale iconografico per un suo libro su Chicago.
Aperta fino al 18 ottobre al MAN di Nuoro, la mostra Vivian Maier – Street Photographer a cura di Anne Morin, è la prima di Vivian Maier ospitata da un’Istituzione pubblica italiana. Insieme a 120 fotografie tra le più importanti dell’archivio di Maloof, catturate tra i primi anni Cinquanta e la fine dei Sessanta, la mostra presenta anche una serie di dieci filmati in super 8 e una selezione di immagini a colori realizzate a partire dalla metà degli anni Sessanta. Privi di tessuto narrativo e senza movimenti di camera, i filmati fanno chiarezza sul suo modo di approcciare il soggetto, fornendo indizi utili per l’interpretazione del lavoro fotografico. Gli scatti degli anni Settanta raccontano invece il cambiamento di visione, dettato dal passaggio dalla Rolleiflex alla Leica, che obbligò Vivian Maier a trasferire la macchina dall’altezza del ventre a quella dell’occhio, offrendole nuove possibilità di visione e di racconto. La mostra sarà inoltre arricchita da una serie di provini a contatto, mai esposti in precedenza, utili per comprendere i processi di visione e sviluppo della fotografa americana. I suoi soggetti prediletti sono stati le strade e le persone, più raramente le architetture, gli oggetti e i paesaggi. Fotografava ciò che improvvisamente le si presentava davanti, che fosse strano, insolito, degno di nota, o la più comune delle azioni quotidiane. Il suo mondo erano “gli altri”, gli sconosciuti, le persone anonime delle città, con cui entrava in contatto per brevi momenti, sempre mantenendo una certa distanza che le permetteva di fare dei soggetti ritratti i protagonisti inconsapevoli di piccole-grandi storie senza importanza. Ogni tanto però, in alcune composizioni più ardite, Vivian Maier si rendeva visibile, superava la soglia della scena per divenire lei stessa parte del suo racconto. Il riflesso del volto su un vetro, la proiezione dell’ombra sul terreno, la sua silhouette compaiono nel perimetro di molte immagini, quasi sempre spezzate da ombre o riflessi, con l’insistenza un po’ ossessiva di chi, insieme a un’idea del mondo, è in cerca soprattutto di se stesso. In questa indagine senza fine talvolta coinvolgeva anche i bambini che le venivano affidati, costringendoli a seguirla in giro per la città, in zone spesso degradate di New York o di Chicago. A uno sguardo sensibile e benevolo per gli umili, gli emarginati, univa una vena sarcastica, evidente in molti scatti rubati, che colpiva un po’ tutti, dai ricchi borghesi dei quartieri alti agli sbandati delle periferie.