La musica americana della seconda metà del XX secolo ha prodotto un’infinità di cose buone e di cose ottime. In questi giorni sono arrivati in Italia (a Milano, Padova e Roma) per tre concerti sold out Crosby, Stills & Nash che sono senza dubbio nell’Olimpo di categoria. Curiosamente, hanno scelto una modalità desueta per approdare in Europa, a Londra: un passaggio sul transatlantico Queen Mary, dove si sono pure esibiti. Se il mezzo di trasporto ha un sapore antico e potrebbe indurre a inquadrare l’operazione come agrodolce amarcord di maniera, sgombriamo subito il campo dagli equivoci: quelli visti agli Arcimboldi e poi nel Gran Teatro Geox padovano, straripanti di pubblico in ogni ordine di posti, sono artisti che hanno guadagnato in maturità espressiva ciò che (non molto, per la verità) hanno perso in forza; e aggiunto in personalità ciò che hanno lasciato in termini di spontaneità. David Crosby (74 anni di carisma), Stephen Stills (70 e qualche acciacco) e Graham Nash (73 anni portati con disinvoltura), dimostrano una volta di più che sul palco ci stanno non per per meriti acquisiti in un fastoso passato e nemmeno per reiterare in modo autocelebrativo la propria stella, ma in virtù di una straordinaria qualità produttiva e di una fase esecutiva tuttora capace di grandi bagliori. Il trio ha un presente impastato con la stessa materia di un tempo: musica della West Coast che eccelle per purezza delle voci, raffinatezza compositiva, sonorità pulite ed esecuzioni di vigorosa poesia.
CSN scelgono da un repertorio vastissimo quasi sempre gli stessi brani, quelli che amano di più, e questo può apparire un limite, anche se non lo è; e Stills, che continua ad essere una forza della natura con la chitarra in mano, ha una voce che si incrina sovente e non regge il passo con quella degli altri due. Ma non bastano certo questi elementi ad abbassare il livello di live che risultano esemplari: la conferma arriva non da una platea adorante, ma da un un pubblico di rara competenza tra cui si celavano anche alcuni bravi musicisti nostrani, quasi fossero tornati per una volta dietro i banchi di scuola a vedere giganti in azione. La band di accompagnamento era di fuoriclasse dei rispettivi strumenti: Russ Kunkel alla batteria, Shane Fontayne alla chitarra, Todd Caldwell all’organo, Kevin McCormick al basso, mentre James Raymond figlio naturale di Crosby che da tempo suona con il padre era alle tastiere. Quasi invisibile ma efficacissima regia di Graham Nash, nei tempi il cemento e l’equilibratore del trio, colui che si incaricava di riportare indietro i compagni di strada dai paradisi artificiali o dai tunnel alcolici in cui si perdevano con una certa frequenza, per restituirli al piacere di suonare insieme.Sulle note di Carry On, Wooden Ships, Just a Song Before I Go, Helplessy Hoping, Marrakesh Express, Virtual World, Chicago, Southern Cross, Déjà Vu, Our House, Guinevere, Teach Your Children, Cathedral, Almost Cut My Hair (dove la voce cristallina e potente di Crosby raggiunge estensioni precluse ai comuni mortali, dopo averci rapito con i falsetti e i mezzi toni di altri brani), si svolge un rito che stupisce per freschezza, con tre vecchi leoni a sprigionare armonie che non invecchiano mai.