Si può visitare fino al 29 marzo a Villa Panza di Varese, America, la mostra fotografica di Wim Wenders con scatti realizzati tra il 1978 e il 2003 che ci restituiscono la sua idea di America. In un’intervista rilasciata a Postif nel 1977 Wenders spiegava che per L’amico americano vi era stata una scelta precisa di colori, in particolare il porpora e il verde (per i neon), una tavolozza di colori che rimandava alla pittura iperrealista americana:” durante tutte le riprese abbiamo manipolato abbastanza il colore. Vi è spesso una luce mista: artificiale e naturale, il che dà un effetto un po’ strano. Con il trattamento del colore abbiamo cercato di ottenere una certa atmosfera artificiale che dà un’immagine vicina all’iperrealismo americano.” Da allora la ricerca non si è mai fermata e ora abbiamo questa mostra nata sotto il segno degli Hopper.
Protagonisti, insieme al West americano, sono infatti l’attore Dennis Hopper e il pittore Edward Hopper: al primo, scomparso nel 2010, è dedicato l’allestimento, come certifica l’affettuoso pensiero siglato dall’amico Wenders in persona sui muri della residenza; il secondo, fonte di ispirazione per la messa in scena di molto cinema wendersiano, è esplicitamente citato e omaggiato.
L’America di Wenders è un luogo dell’anima, prima immaginato e poi conosciuto nei lunghi viaggi, quello al principio degli anni Settanta – in cui scoprì la pittura di Hopper, allora poco nota agli europei – e i successivi, in cui valutò le locations adatte ai suoi film. Fu sorpreso dalla desolazione cromaticamente bizzarra dell’Ovest: “Non riuscivo a credere ai miei occhi. Trovavo assurdi tutti quei colori. Avevo problemi a concepirli – racconta Wenders nell’introduzione al catalogo della mostra – figurarsi a pensare che fossero reali. Eppure eccoli lì, proprio di fronte a me! Dovevo solo imparare ad accettarli…”. Fu per questo che Wenders, che per lo più concepiva la fotografia (e il cinema) in bianco e nero, alla fine degli anni settanta aderì al colore e ne fu letteralmente catturato, al punto da accantonare il primo amore, rispolverato soltanto per alcuni film.
Non è invece una acquisizione americana la passione di Wenders per l’on the road, che pratica da sempre. D’altronde, Alice nella città, che inaugurò nel 1973 “la trilogia della strada” (gli altri due film sono Falso movimento e Nel corso del tempo), è stato girato in gran parte negli Usa: perché davvero il regista ha trovato laggiù il terreno adatto per esprimersi.
Le immagini esposte, alcune di dimensioni notevoli, sono fotografie di strada e di passaggio, in cui “si percepiscono la frenata, la sosta, la contemplazione”: edifici cadenti, cimiteri, case fantasma, malinconici paesaggi urbani e praterie infinite. La distanza dai soggetti varia in funzione della storia che Wenders vuole raccontare. Perché questo sono, alla fine, le sue fotografie: racconti. E il West una fonte inesauribile di soggetti. Rara la presenza di persone, ma solo perché è stata data voce agli oggetti in modo che parlino di loro: “I paesaggi danno forma alle nostre vite, formano il nostro carattere, definiscono la nostra condizione umana e se sei attento acuisci la tua sensibilità nei loro confronti, scopri che hanno storie da raccontare e che sono molto più che semplici luoghi”.
Edward Hopper è presenza costante, con i suoi colori che dovrebbero emanare calore e invece trasmettono algida bellezza. Fino all’omaggio esplicito, con Nighthawks, capolavoro del pittore, riprodotto sul set di The End of Violence, nel 1997.
Non solo West, in America: in coda c’è New York. Cinque fotografie di dimensioni giganti in cui Wenders riprende le rovine di Ground Zero durante lo sgombero. Scatti incredibili, capaci di suscitare emozioni nuove intorno a uno dei luoghi più tragicamente presenti nell’immaginario collettivo contemporaneo: ruspe come mostri; la luce dell’alba che filtra tra i grattacieli; il fumo, il ferro e il fuoco padroni indisturbati sotto gli sguardi impotenti degli operai chiamati a una mesta cerimonia di pulizia.