Rodrigo García, autore di culto con fama di guastatore, è nato a Buenos Aires nel 1964, si è poi trasferito in Spagna dove, nel 1986, ha fondato la compagnia La Carnicería Teatro (un nome non scelto a caso, significa “teatro macelleria”) con cui ha portato nel mondo intero i suoi spettacoli che spesso suscitano dibattiti e proteste: nel 2007, è stato denunciato dagli animalisti perché ha cucinato in diretta un astice nello spettacolo Accidens: matar para comer (e a Milano il blitz della polizia ha evitato che l’astice finisse nell’acqua bollente) e lo stesso è successo di recente con Muerte y reincarnación de un cowboy, in cui una dozzina di pulcini si ritrovavano in una teca con un gatto; nel 2011, in Polonia, Golgota Picnic, il suo spettacolo ispirato alla Bibbia, è stato cancellato a seguito delle proteste dei cattolici integralisti. In Francia è osannato e, dal gennaio 2014, dirige il Centre Dramatique National de Montpellier che ha ribattezzato Humain trop Humain. Al Crt Teatro dell’Arte è in scena fino al 30 giugno la sua ultima produzione, 4. Quattro come gli attori in scena (Gonzalo Cunill, Núria Lloansi, Juan Loriente, Juan Navarro) o come i galli in scarpe da tennis che si muovono sul palco o come la sinfonia di Beethoven che si ascolta quasi in versione integrale. Uno spettacolo di immagini apparentemente slegate tra loro perché «la semplice messa in relazione di due immagini è sufficiente a far sorgere una storia sotto i nostri occhi», come afferma facendo riferimento esplicitamente a Wim Wenders. In 4 mette dentro di tutto: Cronenberg, L’origine du monde di Courbet, McEnroe, i droni, il ballo, il sesso, le piante carnivore, l’alto e il basso ribaltati in frasi a effetto e, soprattutto, l’infanzia, quella dei ricordi e quella – e qui sta la vera violenza – dei concorsi di bellezza che creano mostri (due bambine in scena diventano due ammiccanti reginette, adulte negli abiti e nelle movenze). Rodrigo García ha incontrato pubblico e stampa, rispondendo senza filtri alle domande.
Il mio lavoro
Non mi piace parlare di un singolo spettacolo, per me il lavoro di un artista è la sua opera completa. 4 è solo un altro passo nel mio percorso iniziato più di 25 anni fa. È difficile guardare un lavoro in maniera isolata, questo forse è meno politico e meno esplicito di altri perché sentivo il bisogno di un lavoro più di finzione, senza una narrativa classica, con elementi anche un po’ strani, come i galli in scena con gli attori. Sicuramente ci sono molti riferimenti alla mia biografia che poi trasformo ed esagero, però è il punto da cui sono partito, in particolare il rapporto con l’infanzia. Per esempio, a un certo punto, c’è il sogno-confessione di un samurai che diventa una sorta di difesa, di lotta con il vivere per proteggersi. Lui parla di un’infanzia occidentale, ci sono riferimenti ai cartoni animati che guardavo io (per esempio Carlo Gallo che trovavo di una violenza inaudita e mi chiedevo come fosse possibile che venisse trasmesso). Il tema dell’infanzia si vede anche nelle due bambine di nove anni che subiscono una vera e propria trasformazione all’interno dello spettacolo. C’è una squadra di truccatrici che le trasforma in top model, per me è un’immagine terribile che ho preso negli Stati Uniti dove ci sono moltissimi concorsi per bambini.
Il rapporto con il cinema
C’è un rapporto diretto con il cinema che ho visto durante la mia adolescenza e la mia giovinezza. Penso a Pasolini, Kurosawa, Wim Wenders, Béla Tarr… Per me tutti interessanti perché utilizzavano al meglio il mezzo cinematografico, ognuno in maniera diversa. La non narrazione di cui parla Wim Wenders, il fatto di non narrare una storia perché è il pubblico a crearla con le immagini che gli arrivano, mi ha ispirato in questo lavoro. Ogni spettatore può così creare una storia diversa, naturalmente ciò avviene se il regista riesce a suggerire qualcosa attraverso le immagini. Il rischio che corro è che qualcuno trovi le mie immagini vuote, ma fa parte del gioco.
Il rapporto con i classici
Ho una formazione classica di studente di teatro e di lettore di classici, a cui ritorno quando posso, ma a livello personale. Non porto i classici in scena perché, in questo momento, lo considero politicamente non corretto. Sento la responsabilità di sviluppare il mio proprio linguaggio. Mi piace leggere il teatro classico, ma non vederlo rappresentato, non riesco a credere a nulla di quello che vedo.
La pubblicità
Ho lavorato per molti anni in pubblicità, ma non è quella che mi ha segnato. Semmai è stata per me importante a livello di contenuto: per cinque o sei anni ho fatto opere anti-consumistiche (Ho comprato una pala da Ikea per scavarmi la tomba, La storia di Ronald il pagliaccio del McDonald’s…). La provocazione in pubblicità ha l’obiettivo di vendere un prodotto, a teatro io non faccio provocazione fine a se stessa, voglio essere amico del pubblico, voglio che con il pubblico ci capiamo.
Affinità elettive
Ci sono un sacco di persone che mi interessano, un universo diverso dal mio perché non vado a vedere chi fa cose simili alle mie. Potrei dire Romeo Castellucci, Ian Fabre, ma sono nomi facili. Anche i giovani artisti concettuali mi piacciono molto.
La violenza in scena
Non vedo la possibilità di esprimere la violenza sul palco perché in scena tutto è finto, c’è una grande protezione. L’evento teatrale è un evento borghese, siamo tutti in una bolla, non è un luogo per la violenza. Ci sono persone che lo fanno, ma non è il mio caso. L’intenzione del nostro lavoro è sempre quella di essere vicino al pubblico. La differenza con il teatro classico è che qui c’è la vita, là è tutto finzione e morte. Forse qualcuno si spaventa quando vede i miei spettacoli perché è la vita.
Gli animali
Mi piace usarli in scena perché esistono e perché sono cresciuto circondato dagli animali. Sono nato in un quartiere poverissimo, l’animale era utile, non c’era la relazione che c’è adesso: il cane serviva per la difesa della casa, non era “da compagnia”, il cavallo per lavorare… Ora vivo in un piccolo paesino delle Asturie e i miei vicini sono tutti contadini. Il rapporto con gli animali è di tipo utilitaristico. Quello che mi preoccupa e mi interessa è il rispetto per gli uomini.
Il cibo
È un tema ormai superato nel mio teatro. Un tempo il cibo in scena aveva una ragione politica. In Argentina non tutti ce l’avevano, ho utilizzato alimenti riconoscibili (la Coca Cola, la scatola di Corn Flakes…) che nelle mani degli attori diventavano oggetti demoniaci, perversi, da distruggere.
Il lavoro con gli attori
Per me sono molto importanti. Questo spettacolo si intitola 4 perché ci sono quattro attori in scena e sono persone con cui lavoro da oltre 15 anni. La personalità di ognuno di loro è fondamentale, io non scrivo personaggi, per questo parlavo prima della vita. Cerco sempre di aver paura degli attori, dell’insuccesso… Certo, non è facile con attori che conosci bene, ma continuiamo a lavorare come se ogni volta fosse la prima volta.
Italia-Francia-Spagna
Se parliamo della politica culturale di ogni Paese, ci sono delle analogie tra Italia e Spagna: sono paesi iperconservatori (basti pensare ai finanziamenti che vengono elargiti sempre e solo al teatro tradizionale). In Francia la situazione è diversa, si dà maggiore valore al lavoro sperimentale, ma anche lì non è la panacea. È difficile trovare posto nei teatri istituzionali, in genere si inventano un festival e sono critico verso questo atteggiamento perché è come se non fosse la regola, ma l’eccezione, quasi una sorta di protezione.
L’Argentina
La relazione con il mio Paese è stata interrotta a causa del pessimo rapporto che ho con mio padre. Non sono una persona nostalgica, ma nei miei spettacoli dò una grande importanza all’infanzia e forse questo andrebbe analizzato da un punto di vista psicanalitico.
La religione
Personalmente sono ateo, ma credo nella spiritualità, in un rapporto trascendentale che non identifico in nessuna religione particolare. Penso che la Bibbia sia un libro affascinante come letteratura fantastica. Ne ho fatto anche uno spettacolo, Golgota Picnic, che gira da cinque anni. Sarebbe divertente farlo a Roma…
Milano Teatro dell’Arte fino al 30 giugno
www.crtmilano.it