Superficie profondo rosso. Ring e stanza chiusa smaltata cremisi (camera di tortura?), lo spazio scenico concepito da Federico Biancalani per questo Zio Vanja, regia e drammaturgia di Simona Gonella, incastra i personaggi cechoviani in una scena anti-realistica, sottilmente lynchiana, un filo tarantiniana – una stufa e una sedia da dentista sul fondo, qualche panca, un lettino obitoriale a un certo punto, immersi in un monocrome fiammante – in cui la tiepidezza simbolica del samovar (etimologicamente “che bolle da sé”), l’inclemenza minacciosa del temporale, la freddezza degli animi, è surriscaldata, resa elettrica e incandescente dalle scintille che si producono fra questa umanità rinchiusa e perduta, disillusa e frustrata che si agita, paralizzata sul palco. La compresenza forzata somiglia a un consesso di solitudini che si scontrano, una raccolta di ferite che segnano e colorano il paesaggio interiore di un senso vivido di desolazione, disillusione, rimpianto e risentimento. A porte chiuse.
Con scelta drammaturgica per certi aspetti opposta al Gabbiano di Leonardo Lidi, negli stessi giorni di scena al Piccolo, che lavora con grande efficacia per sottrazione, asciuttezza espressiva e sussurri, anche se su uno spazio parimenti claustrofobico, qui viene fuori in forma esplosiva (non solo dei due colpi di pistola previsti dal testo) tutta la natura ferina dei personaggi (come il sottotitolo, Un’indagine sulla ferocia, suggerisce). Questa lettura dà infatti voce (e grida) a quei lupi dentro che abbaiano e ululano anche fuor di metafora (homo homini lupus) in momenti isterici, predatori, di sfogo e d’impotenza. La drammaturgia, incorporando nel testo alcune delle note di regia che Stanislavskij, più di cento anni fa, scrisse a margine del suo storico allestimento, consegna alla balia/madre (Anna Coppola) un ruolo di commento/contrappunto/tessitura che cura, commenta e interroga. Le didascalie e le indicazioni recitate, insieme a un ambiente sonoro governato da un Telegin autistico e acusmatico, osservatore e deejay della danza (Donato Paternoster), costituiscono elemento straniante e al contempo illuminante delle relazioni che ribollono e implodono fra i personaggi principali. Ciascuno nella sua tridimensionalità, con la forza inquietante di nostri assoluti contemporanei, grazie a una compagnia affiatata e disposta a mettersi in gioco.
Ogni personaggio/interpretazione racconta la sua storia, attraverso la spietatezza delle relazioni e del tempo che passa sui destini dei singoli, una declinazione della paralisi del vivere: il dottor Astrov (Marco Cacciola), ecologista ante litteram e inascoltato, innamorato non corrisposto di Elena (Stefanie Bruckner), giovane sposa, qui esoticamente tedesca, insoddisfatta del professor Serebrijakov (Stefano Braschi), vecchio accademico vuoto e fallito che vorrebbe disfarsi della proprietà terriera di campagna come di un fardello, innescando la reazione indignata e violenta di zio Vanja (Woody Neri), rimasto con l’infelice e rassegnata nipote Sonja (Stefania Medri) a gestire quel luogo da sempre, che sente la vanità della sua dedizione e prospettiva esistenziale, in un finale che riesce a essere speranzoso e disperante contemporaneamente. Infernalmente aperto. Di questo gioco al massacro frustrato e sospeso Gonella, insieme a un cast solido e capace di mettersi in gioco per piste e registri non sempre prevedibili, dà una versione del classico in grado di tagliare in profondità e di parlare al pubblico contemporaneo, stupirlo e interrogarlo con un testo che evidentemente ha ancora molto da dire e molte intenzioni di esprimere.
Foto di @Luca Del Pia
Spettacolo visto al Teatro Fontana, il 13 aprile 2023
Prato Fabbricone 20-23 aprile