“La maggior parte dei re ha un castello, Elvis aveva una casa”. Recita così lo slogan di Graceland, la proprietà che Elvis Presley possedeva a Memphis. Mito convertito in prodotto di consumo dalla Elvis Presley Enterprises, The King non è morto infatti sul trono ma nella sala da bagno del primo piano, da sempre e per fortuna inaccessibile al pubblico e ai media. Graceland è diventata nel 2006 monumento storico nazionale, meta di fan e groupie inconsolabili. Consacrata alla gloria dell’artista e allungata lungo un desolato boulevard, disseminato da fast food, aree di servizio e chain hotel per accogliere i pellegrini, Graceland è un tempio inerte dove la musica ha ceduto il passo al culto. Un memoriale che offre reliquie e niente da ascoltare. Per superare i cancelli e infilare l’intimità domestica di Elvis servono 38 dollari, 93 per ‘diventare’ VIP, 159 per esagerare e figurarsi Ultimate VIP. Staccato il biglietto si accede a una colonial house battezzata Graceland dal precedente proprietario. Elvis acquistò la proprietà nel 1957 per centomila dollari e grazie ai generosi introiti del suo primo disco d’oro (Heartbreak Hotel). I gusti singolari di Elvis la trasformarono in un manifesto kitsch postmoderno tappezzato con 320 metri di stoffa, arredato con vetrate e pavoni, divani ecopelle, pianoforti a coda, moquette verde a pelo lungo sul pavimento e sul soffitto. La visita avanza cronologicamente, l’infanzia a Tupelo, la relazione fusionale con la madre, l’assenza significativa del gemello morto, e poi ancora il quadro sociale e musicale, una stagione risolutamente razzista dove qualche radio suonava il gospel, il rock e il rhythm’n’blues.
Dal Mississippi della sua infanzia al panthéon del rock’n’roll, i visitatori ripercorrono la scalata vertiginosa di un gigante su cui ciascuno ha depositato un po’ del proprio immaginario. Tra la Jungle Room e le scuderie (auto e cavalli), tra la mediaroom e la sala da biliardo, le piante esotiche e le scimmie di ceramica, Elvis finì la sua vita stanco, greve e consumato dalle droghe legali, il junk food e il sogno di eterna grandezza. Ma del crepuscolo del dio nel santuario asettico gestito dalla Elvis Presley Enterprises non c’è traccia. Elvis era soprattutto un bravo ragazzo. Un bambino povero che da grande offrì la migliore delle case ai suoi genitori, sposò Priscilla da cui ‘da didascalia’ non avrebbe mai divorziato e accompagnò col suo aereo privato la piccola Lisa Marie in Colorado per farla giocare qualche minuto con la neve. Insomma, la realizzazione esemplare del sogno americano. E il pubblico di Graceland preferisce la favola alla vita. Una favola (in)dorata e fritta con le chicken wings da raccontare ai propri figli. Perché a Graceland si viene con la famiglia e tra bianchi, i neri intervengono come personale. I giovani, quasi tutti accompagnati, si rassegnano alla gita fuori porta e all’isteria vintage dei genitori. Oggi Graceland, domani il monte Rushmore, dopodomani la Liberty Bell di Philadelphia. Di Elvis apprendono che era un uomo ammirevole, che aveva assolto i suoi obblighi militari, che era generoso con le organizzazioni caritatevoli di Memphis e bla bla bla. Niente a Graceland permetterebbe a un adolescente che ignora tutto di Elvis Presley di comprenderne la portata, l’importanza culturale senza pari, quella scossa abbagliante e ancheggiante sul bacino che spostò più avanti la musica popolare e la società occidentale del XX secolo. Niente ancora delle contraddizioni di quel giovane uomo bianco che frequentava il blues dei neri dentro una società segregazionista. Quello che di Elvis resta a Graceland è un fantasma bloccato nella sua fotogenia aurorale, non vedrete alcuna foto del suo del ultimo periodo di vita. Uno spirito senza pace che vaga lungo i corridoi, imprigionato in un monumento di chincaglieria degli anni Sessanta e Settanta, in cui domina la formica, il similpelle, il velluto, la pelliccia e poi gli orsi di peluche, le teste di tigri, draghi, scimmie. Più che una figura rivoluzionaria del rock’n’roll, Elvis appare come un pioniere del marketing. Gli altri spazi di Graceland sono dedicati invece al successo sociale di Presley: uno espone i suoi costumi di scena, un altro ospita le sue automobili, un altro ancora il suo Jet privato, un Convair 880 nominato Lisa Marie, dove scopriamo che Elvis era un modello di sobrietà e beveva solamente acqua frizzante. Quale che sia il sito visitato, sbuchiamo invariabilmente in un gift shop senza altra possibilità di uscita.
Dischi pochi e mal esposti, i diritti discografici sono della Universal. Per quelli e per ritrovare il diciottenne che registrò il suo primo vinile per quattro dollari nell’estate del 1953, bisogna recarsi al Sun Studio. In quel luogo fragile, in cui convergono ferrovia, fiume e highway e in cui si accordarono tutti i kings della musica, Elvis non è più isolato nel suo culto ma restituito alle sue radici musicali (Blues, Gospel, Country) e circondato dai suoi compagni di etichetta, bianchi (Jerry Lee Lewis, Johnny Cash, Carl Perkins) e neri (Howlin’ Wolf, B.B. King). In quella minuscola sala di registrazione, raccordo magico tra la strada e la gloria, si articola finalmente l’importanza artistica di Presley e la deflagrazione che fu la sua apparizione in scena e nell’America ‘composta’ degli anni Cinquanta. Quando il suo rock era selvaggio e in bianco e nero, quando il suo magnetismo era sciamanico e il suo ancheggiare culto. Ma il tempo è tiranno e un altro gruppo incombe dietro la porta di Samuel Phillips, dove per 85 dollari puoi (ancora) registrare. Incidere una canzone al Sun Studio costa meno che diventare VIP a Graceland. Make the choice. Seguiamo l’uscita e rimandiamo all’attesa al gate le riflessioni sul Re di Tupelo che fece l’impresa con una voce limpida che non ha mai finito di vibrare. Sensibile come ogni pellegrino all’acquisto compulsivo, compro un paio di occhiali da sole uguali a quelli che Elvis commissiona a Dennis Roberts, ottico di Sunset Boulevard, quelli con le lenti a goccia, le asticelle traforate e il ponte in metallo, ma il mio è di una plastica dozzinale come tutti i gadget venduti a Graceland, un vinile 33 giri RCA del concerto del 1970 a Las Vegas e il film di Liza Johnson. Elvis & Nixon lo trovate soltanto fuori dai cancelli del mausoleo. Perché l’incontro alla Casa Bianca tra il divo e il presidente coglie The King in piena transizione, tra il comeback del 1968 e la trasformazione terminale in attrazione da fiera. Il meglio dell’artista è già passato e il peggio attende dietro l’angolo. Destituito da una generazione di nuovi rocker inglesi (i Beatles, gli Stones), Elvis recupera in quegli anni un brandello di regno con una protest song in technicolor (In the Ghetto), come un mélo di Douglas Sirk, e affronta il dubbio che lo rode (Suspicious Mind) fino a ucciderlo otto anni dopo. Nello scarto si insinua la grazie minerale di Michael Shannon, fomentatore di disordine che sul volo per Chicago mi chiarisce i pensieri. Tra la bicromia del Sun Studio e l’incontinenza cromatica di Graceland, l’attore trova la distanza ideale da Elvis, che non imita e nemmeno scimmiotta. Shannon è, dentro i costumi ridondanti e l’ossessione per le armi da fuoco. Lavorando in sottrazione compone un Elvis complesso, accecato dal proprio bagliore ma lucido sulla sua condizione: “Sono diventato un oggetto, come una bottiglia di Coca-Cola”. Elvis è il Re, davanti a cui tutto il mondo si arresta sbalordito, ma i ‘principi’ si sono già spartiti la sua eredità. E lui, inghiottito dal personaggio, ne ha perfetta coscienza. Seppellito in un paradiso artificiale, come quelli in cui cantava travestito i suoi ultimi concerti, Elvis a Graceland non lo ‘sentirete’ mai. Dovete allontanarvi dalla sua giurisdizione e perdervi a Memphis, vuota, sfuggente, devitalizzata. Sulla strada The King risuona con la sua epoca e inevitabilmente con la nostra. Lì Elvislives, come ‘assicura’ la password WiFi dei migliori BBQ di Memphis, Tennessee.
Le fotografie sono di Marzia Gandolfi