Angela Ricci Lucchi amava le scrittrici indiane, diceva che avevano una saggezza maggiore e una visione profonda della realtà. Lettrice instancabile e appassionata, aveva un senso dell’ironia raffinato e aperto. Sembrava sempre allegra, ma i suoi occhi esprimevano con esattezza il disappunto e la disapprovazione. Non finiranno mai di insegnarci il presente i film realizzati insieme a Yervant Gianikian in più di quarant’anni di lavoro assiduo e di studio profondissimo. E ora che Angela se n’è andata, ci ritroviamo a ripercorrere la sua opera, le parole, gli acquerelli, i racconti. Un catalogo ricco e preziosissimo costruito a partire proprio da raccolte sparse di immagini messe insieme e accresciute sempre di un nuovo senso. Gli elenchi sono materia viva da cui trarre insegnamento perché ci riconducono alla vita di uomini e donne, alle abitudini, alle forme della rappresentazione, ai modelli e a tutto ciò che sotto la superficie freme e ribolle.
Far emergere il senso nascosto di ciò che studiavano era la “missione” condotta da Angela e Yervant, con disponibiltà e sguardo sempre vigile, poetico e politico. Nata a Lugo di Romagna, formatasi come pittrice a Salisburgo frequentando la scuola di Oskar Kokoschka, descriveva con i suoi schizzi la semplicità poderosa del loro lavoro, che materializza il gesto del fare (e del farsi) cinema, mette in movimento la staticità della pellicola, ne filma l’essenza portando in primo piano ciò che è sempre stato ignorato. Li possiamo vedere nei molti libri pubblicati sul loro lavoro, accanto ad appunti a mano, annotazioni, puntualizzazioni che diventeranno gesto, forse irriconoscibile, ma importante (lunghi rotoli di carta erano stati esposti in occasione di una straordinaria mostra a loro dedicata all’Hangar Bicocca qualche anno fa). Ritr-atti d’amore che “mettono in luce”, e fanno emergere, riaffiorare la memoria, per così dire, fotografica della pellicola impressionata e ri-fotografata. La nostalgia intrinseca nella pellicola, il rimpianto del flusso continuo che è stato frantumato, fotogramma per fotogramma e ricomposto in un altro modo, estraendo in senso nascosto e universale. Nella “perlustrazione” di cui i loro film sono la rappresentazione, si esalta anche il desiderio di vedere proprio del cinema, la tensione ad avvicinarsi con l’occhio in profondità. Precipitare, perdersi, ritrovarsi nei frammenti di immagine per ricominciare in quelli successivi.
“Non ci piace essere chiamati archeologi del cinema. Lavoriamo su immagini del passato, che spesso hanno come argomento la guerra, per parlare del presente. Se Godard ha fatto in modo personale la sua storia del cinema, a noi con i nostri film interessa fare la storia dell’uomo. E non vogliamo facilitare il compito dello spettatore, che deve scavare, come abbiamo fatto noi, in quei fotogrammi muti, dove volti anonimi ci interpellano, ci guardano, ci vengono incontro”.
Dal Polo all’Equatore, Oh, uomo, Su tutte le vette è pace, Prigionieri della guerra, Ghiro ghiro tondo, Topografie… Il conflitto bellico d’inizio Novecento è un periodo storico ricorrente, insieme alla questione di popoli e paesi oppressi (gli armeni e il genocidio, i rom, gli slavi, l’Africa coloniale e il neocolonialismo), la rappresentazione maschilista della donna, il tormento inflitto agli animali…. Esplorazioni continue dentro il “corpo ferito” dell’uomo del secolo scorso, che ancora non è guarito. “Non è solo che lo spettatore può riflettere sui nostri film; deve entrare in ognuno dei fotogrammi. Lo obblighiamo a pensare alle operazioni che abbiamo compiuto sul materiale originario”, solo così l’incontro con lo spettatore si può compiere e quei film possono continuare a vivere.
Tutto questo per dire che se n’è andata una donna straordinaria e un’artista dalla sensibilità non comune, ma ci ha lasciato un enorme patrimonio, che ogni uomo dovrebbe conoscere per rivelare a se stesso il senso del (proprio) presente.