Magnifiche ossessioni, quelle che abitano la filmografia di Carlo Vanzina (scomparso l’8 luglio all’età di 67 anni, era nato a Roma il 13 marzo 1951): 60 lungometraggi per il cinema realizzati fra il 1976 (Luna di miele in tre) e il 2017 (Caccia al tesoro) e 6 lavori concepiti per la televisione (le mini serie Anni ’50, 1998, Anni ’60, 1999, Un ciclone in famiglia, 2005-2008; i tv movie Un maresciallo in gondola, 2002, Piper, 2007, Vip, 2008), dove riposizionare il proprio sconfinato immaginario. Elaborate, sempre, insieme al fratello sceneggiatore Enrico. Complici, Carlo e Enrico, nel costruire, pezzo dopo pezzo, un cinema di esemplare coerenza che ha attraversato quasi tutti i generi cinematografici (mancano il western e l’horror, comunque ‘sfiorati’ in alcune opere, si pensi a A spasso nel tempo, 1996, e Sognando la California, 1992 – per Carlo Vanzina “una sorta di western moderno” -, a Squillo, 1996, e Sotto il vestito niente, 1995), in stretto rapporto con il cinema popolare e con una cinefilia a 360 gradi sinceramente dichiarata. Quando nel 2006 organizzammo (io, Simone Emiliani e il direttore del festival Paolo Romano) per Schermi d’amore di Verona un omaggio al cinema sentimentale dei Vanzina, chiedemmo a Carlo se si considerasse un “mangiatore di film”, riprendendo la celebre espressione di Enzo Ungari. Ci rispose: «Sì, anch’io sono un “mangiatore di film”. Cinema alto, cinema basso. Di tutto».
Dopo avere imparato il mestiere sui set e tra le pagine di sceneggiatura di registi che hanno fatto la storia del cinema italiano, in particolare della commedia (Steno, Monicelli, Risi…), Carlo Vanzina esordisce sul grande schermo con Luna di miele in tre, commedia che contiene una meravigliosa scena onirica e musical con Renato Pozzetto, nel ruolo di un cameriere d’albergo, che sogna di essere circondato da ragazze di Playboy girando fra i loro tavoli con un vassoio. Un cinema fin da subito nel segno della memoria, di immagini immediatamente riconoscibili, che esprime, in ogni suo istante, il piacere dell’inventare, del disegnare, del percorrere – del ‘sentire’ – la finzione, l’artificio più esibito. Da lì, da quel punto di partenza continuamente ribadito, come tratto necessario di adesione a un cinema classico con il quale confrontarsi con passione e onestà, l’opera di Carlo Vanzina si è sviluppata in una moltitudine di direzioni, straordinariamente cangiante e al tempo stesso mai distratta, sempre presente alla sua idea di mantenere in funzione quel cinema d’intrattenimento tanto amato e ormai quasi del tutto assente, consegnato alla memoria. Da lì, dall’artificio più spinto, dalla finzione che genera verità, Vanzina ha raccontato l’Italia di questi ultimi quattro decenni attraverso personaggi e luoghi, comportamenti e battute, set e gesti che ricorrono con precisione da un film all’altro, da quelli più aderenti alla commedia e alle sue molteplici sfumature a quelli che abitano altri generi, come il giallo, il thriller, il melodramma, la favola romantica, il fotoromanzo. Difficile, però, che un suo film sia soltanto una di queste cose. Uno dei segni particolari della filmografia vanziniana è infatti proprio quello dello spostamento continuo, dentro uno stesso film, da un genere a un altro (così come i film abitano, con diverse intensità ma con regolarità, più spazi, nel segno di un instancabile, ripetuto invito al viaggio, vero o virtuale, mantenuto intatto fino all’ultimo, ora purtroppo definitivamente ultimo, Caccia al tesoro, emblematico fin dal titolo). Questione appunto di sfumature che accadono in maniera naturale, con la complicità di uno sguardo morbido del filmare che sa cogliere e ‘ascoltare’ i dettagli: di un gesto, una parola, una canzone.
Impossibile, ripercorrere una carriera lunga oltre quarant’anni. Appassionante, soffermarsi su alcune delle magnifiche ossessioni che la compongono e su alcuni titoli imprescindibili. Se il cinema di Vanzina nasce nel segno di una sintesi nervosa e scheggiata, dove le situazioni si spezzano e ri-compongono (si pensi alla struttura di film come Luna di miele in tre, Arrivano i Gatti, 1980, Una vacanza bestiale, 1981), esso si modifica in un discorso più disteso a partire da I fichissimi, 1981, moderna versione di Romeo e Giulietta, trovando, tra i film d’inizio anni Ottanta, in Sapore di mare e Vacanze di Natale (per il regista “una specie di Vacanze d’inverno” – il film del 1959 di Camillo Mastrocinque e Giuliano Carnimeo ambientato a Cortina), entrambi del 1983, una sua più elaborata armoniosità, un suo procedere più compatto. Ma c’è un film di quel decennio che svetterà, rimanendo uno dei capolavori di Vanzina, se non il capolavoro: Amarsi un po’… (1984). Commedia-favola che, nel raccontare l’amore fra il meccanico Marco (Claudio Amendola) e la principessa Cristiana (Tahnee Welch), contiene alcuni degli elementi mélo più profondi di tutta l’opera vanziniana: la scena di ‘gelosia generazionale’ tra Virna Lisi (icona già presente in Sapore di mare), sublime nel ruolo della madre di Cristiana, e la figlia, che inizia da uno specchio e comprende uno schiaffo, e quella con loro due a fare shopping in un negozio d’alta moda e a confrontarsi parlando ancora di fronte a uno specchio; e tutta la parte finale: il viaggio in macchina e contro il tempo di Marco da Roma a Parigi per raggiungere Cristiana prima della sua cerimonia nuziale in chiesa; la morte sfiorata; i nuovi decisivi dialoghi tra madre e figlia; la costruzione dell’happy end e di una (in)comunicabilità fra i personaggi resa visivamente con alcuni dettagli e la visualizzazione del vuoto, della distanza che, in una stessa inquadratura, separa o unisce corpi nel segno dell’amore. È una serie di scene madri che si succedono armoniose e che evidenziano nel migliore dei modi quel lavoro di sintesi, di saper concentrare nelle inquadrature l’essenziale, che è un altro dei segni d’identità forti di questo cinema. Come lo è la velocità di realizzazione, il modo di lavorare di Carlo Vanzina, girare film come se fossero già montati. Ci raccontava: «È difficile che io tagli delle sequenze. Piuttosto non le giro. Anche per questo i film tendono ad avere durate più brevi rispetto alla media. Il fatto di girare “già montato” viene sia dalla scuola di mio padre sia da quella di Mario Monicelli, con cui ho lavorato. Faceva le cose con una semplicità impressionante».
Non si possono così non ricordare le immagini del desiderio che prendono la forma della favola principesca in Piccolo grande amore (1993; “un’altra nostra scommessa, con Raoul Bova ancora sconosciuto”) e quelle indelebili di puro mélo disseminate in Via Montenapoleone (1987), I miei primi 40 anni (1987), Le finte bionde (1989). Fino a Miliardi (1991), dove ogni scena non è solo sintesi estrema di quello che contiene, ma ipotetico punto di partenza per sviluppare un altro/tanti altri film, come in una serie di infinite porte che si potrebbero aprire e oltre le quali i personaggi potrebbero continuare le stesse/altre avventure. Senza fine. Come senza fine, in quel film, sono gli scambi di set, gli spostamenti a spasso nello spazio (ricordando quei due gioielli in viaggio anche nelle epoche che sono A spasso nel tempo e A spasso nel tempo – L’avventura continua, 1997), ancor più numerosi che in altri testi. Fino a Quello che le ragazze non dicono (2000), ritratto, corale e individuale, commovente e senza un attimo di tregua, di quattro amiche dai tempi della scuola con destini e ambizioni diverse. L’amore e la morte, il lavoro e la malattia, e le contraddizioni che caratterizzano ogni esistenza. Cinema dove le canzoni inserite nella colonna sonora assumono una funzione diegetica (nelle parole di Enrico Vanzina: «Si tratta di trovare l’attacco giusto della canzone sul sentimento. Credo che se il nostro cinema lascerà un piccolo segno sarà anche per l’uso delle canzoni del momento, delle loro parole. Inoltre, spesso abbiamo usato le parole delle canzoni come dialogo»): da Vacanze di Natale a Vacanze di Natale 2000 (1999; va ribadito: gli unici due film “di Natale” di Vanzina), da I miei primi 40 anni a Sapore di mare, da Sognando la California a Eccezzziunale veramente capitolo secondo… me (2006)… Cinema che, nel suo essere infinito catalogo di corpi, oggetti, luoghi, passioni, manifesta la sua cinefilia anche nella presenza ricorrente di attori e attrici stranieri/e nei loro momenti di popolarità o come memoria di cinema: Carol Alt, Renée Simonsen, Carole Bouquet, Donald Pleasance, Daryl Hannah, David Warner, Susannah York, Daniel Gélin, Rupert Everett, Lauren Hutton, Jean Sorel, Florinda Bolkan… Senza dimenticare quei corpi, italiani e stranieri, ‘pescati’ dal porno fin dagli albori: la star dell’hard americano Harry Reems in Luna di miele in tre, Moana Pozzi (come Anna Moana Pozzi) (quasi)pre-hard in Vacanze di Natale, Eva Henger e Edelweiss nella commedia a episodi che omaggia Pietro Germi E adesso sesso (2001). Perché, secondo Enrico Vanzina, «noi usiamo le pornostar non per voyeurismo, ma, se vogliamo, per destrutturare dei luoghi comuni che esistono nel mondo del cinema italiano che si prende un po’ troppo sul serio. È un piacere dire che abbiamo messo in scena anche delle attrici dell’hard, ben più interessanti di tutta una generazione di attricette che si credono chissà cosa e invece possono essere sostituite, come una figurina, da una pornostar». I film («Film che sembrano piccoli giochi sentimentali, ma che nascondono la meraviglia e l’ingenuità del cinema», scrive Grazia Paganelli nel saggio pubblicato nel catalogo di Schermi d’amore), il cinema vanziniano è fonte di continuo stupore, è (come) un album di fotografie – da vedere, sfogliare, toccare – che crea un continuo cortocircuito spaziotemporale nelle magnifiche ossessioni della “Vanzina factory”. E Vanzina factory è il ‘film aggiunto’, titolo di un bellissimo libro fotografico che ne ripercorre la carriera (fino a In questo mondo di ladri, 2004). Per ogni film, poche, selezionate immagini e una breve frase, un pensiero che ne riassume il senso, l’esperienza, il piacere di un incontro… Vanzina factory (che contiene anche immagini dai set e fuori dai set, e locandine di film) accompagna, ‘fuori campo’, il percorso di quella filmografia. È, come ogni film che evoca, immersione pura nei codici più intimi di un appassionato atto d’amore verso il cinema.