Con Omicidi sulla Senna, Ingrid Astier nel 2010 ha vinto il Grand prix Paul-Féval del littérature populaire, il Prix Polar en plein coeur, il Prix Lafayette e il Prix de la Goutte de sang. L’abbiamo incontrata a Courmayeur, al Noir in Fest 2014. Bompiani ha pubblicato il suo romanzo esordio, a cui sono seguiti Angle mort e Petit éloge de la nuit entrambi usciti nella Série noire di Gallimard. Noir, genere che questa parigina adottiva (“Sono nata a Clermont-Ferrand 38 anni fa: vivo lungo la Senna da 8 anni”) alterna ai libri di cucina: “Ne ho scritti altri due. Non trovo che siano generi poi così lontani. Si tratta di passioni, in entrambi i casi. E di realtà: tutte e due raccontano benissimo la nostra società e i rapporti di classe”. Non a caso in Omicidi sulla Senna, non solo sono dettagliatissime le descrizioni dei ristoranti con le loro specialità, ma la presentazione di una blanquette ha la stessa musicalità dei versi di Ofelia di Rimbaud. Mentre su tutto riecheggia l’eco di I lavoratori del mare di Victor Hugo.
Omicidi sulla Senna è un romanzo corale, un omaggio alla Brigade fluviale, ai suoi riti e doveri quotidiani. L’intrigo sembra secondario…
Ho pensato ai cori greci. Voci e azioni maschili che accompagnano la voce più importante, che è femminile. Quella della Senna: femminile nel nome, nel tracciato sinuoso, nelle sue due isole che sono i suoi seni. Parigi è una città di dualismi: amore e morte, gioia e tristezza, luci e solitudini, l’Alta Moda e gli outsider che vivono sulle rive. Il romanzo per me deve farti entrare nella vita dei suoi personaggi. Ecco perché le descrizioni dettagliate delle abitudini, ma anche degli ambienti che i poliziotti della brigata frequentano e della vita dei vagabondi, che sono esattamente quelli che ho incontrato.
I poliziotti sono quasi dei personaggi esotici, che lei analizza scientificamente…
L’aggettivo esotico è perfetto, nel senso di diverso. Un romanzo deve farti incuriosire, venir voglia di aprire una porta ed entrare. Il saggio sull’esotismo di Victor Segalen è stato importantissimo: scrivere significa restituire le differenze tra i mondi. Parlava di scientificità, è vero, ma io aggiungo che, anche quando descrivo le tecniche, lo faccio in modo evocativo. Mi piace molto lo stile che James Ellroy usa per descrivere i suoi poliziotti.
Che tipo di lavoro di ricerca ha fatto? E come è entrata in contatto con la “vera” Brigade fluviale?
Loro erano esotici per me e io per loro. Ho impiegato tre anni per scrivere questo libro, vivendo con loro. Ma prima avevo cominciato ponendo domande a chi abita lungo il fiume e ai pescatori, veri e propri filosofi che mi hanno raccontato le storie delle piene leggendarie e dei pesci siluro che vengono dal Danubio. Scoprii che sapevo pochissimo della Senna, al di là della passione per Notre-Dame de Paris di Victor Hugo, la mia Bibbia. Ho fatto delle letture tecniche sulla città, la sua architettura e storia. E altre per sviluppare la musicalità della lingua. Non amo i dialoghi quotidiani, li trovo poveri e freddi per un libro. Rimbaud mi ha aiutata molto: Ofelia soprattutto per via del sogno del corpo che galleggia sulle acque.
Ma coi poliziotti come è andata? È stato difficile immagino ottenere la loro fiducia…
Sono più di 100 e non gli era mai stato dedicato un romanzo. E io volevo la loro fisicità, il loro essere dei veri e propri sportivi in divisa. Vanno a 90 km all’ora sulla Senna, coi loro Zodiac: uno spettacolo per i parigini, sapendo che i bateaux mouches non superano i 12. Sognavo di entrare nel loro mondo e di farlo attraverso questo libro. Li ho convinti salendo in barca con loro, partecipando alle loro missioni. Ho chiesto al commissario capo se davvero una barca con un cadavere può arrivare fino a sotto il Quai come avevo ipotizzato e lui ha cominciato a sognare con me e mi ha portato, a dicembre, sullo Zodiac, mostrandomi tutti i percorsi possibili. Ogni volta che mi diceva se volevo tornare gli rispondevo di no. Così ho ottenuto la sua fiducia. Anche se alla fine mi ha confessato che mi avevano soprannominato la pazza. Adesso è morto, ma quando ha letto il libro mi ha detto che il mio rigore scientifico l’aveva conquistato. Anche i “nasi” di Rochas e Patou con cui ho collaborato mi hanno detto la stessa cosa: anzi, non era mai successo che dessero una loro formula per un libro. Del resto volevo che questo romanzo coinvolgesse tutti i sensi, odorato compreso. Ma più che a Il profumo di Süskind, ho ripensato alla mia memoria olfattiva: alle rose del giardino di mia madre, dove giocavo da bambina.
Ha citato Victor Hugo, ma le descrizioni dei locali, delle bettole come dei sottotetti richiamano anche Simenon: troppo ovvio dire che è stata un’altra delle sue ispirazioni?
No, perché amo tutto ciò che è stato scritto su Parigi. Perché, fondamentalmente, adoro questa città: non puoi chiuderti in un mondo per tre anni se non ti muove la passione. Simenon mi ha fatto venire voglia di entrare al 36 di Quai des Orfèvres: il titolo originale del libro non a caso è Quai des enfers, una similitudine sonora che in Francia è piaciuta molto. Le stanze sono esattamente come le descrivo. E così la lingua che si parla, i soprannomi, le abitudini. È vero che i capi della brigata collezionano corallo, che c’è una testa di coccodrillo nella stanza del grande capo. Fotografavo i piedi e chiedevo loro come allacciavano le scarpe. L’animale impagliato è una minaccia per i giovani presuntuosi: si rischia di fare quella fine, bocca grande e braccia corte…
36, Quai des Orfèvres, il film di Olivier Marchand, ha avuto molto successo in Francia. Ne è stata influenzata?
No, perché il mio romanzo non è così deprimente e cinico. Però io scrivo con immagini davanti agli occhi: più che altro ho visto videoclip di musica e arte, entrambe molto presenti nel libro. Tutte le canzoni che cito sono quelle che ascoltavo lavorando, dal Requiem di Mozart ai video di Trent Reznor: ogni personaggio ha la sua colonna onora, dalla musica acquatica di Remy a Lux Aeterna di György Ligeti, che ho preso in prestito da Kubrick per l’assassino. È come passare al lettore una tracklist. E poi c’è un quadro di un imperatore romano, ottocentesco, di cui non ricordo il nome… E David Lynch: è un regista che amo, è folle e paradossale, misterioso e complesso. Ancora più che qui, mi ha influenzato nel romanzo successivo che è diviso in ore e cronometrato con riferimenti a canzone italiane. Il “mio” cinema sono lui, David Fincher e Jean-Pierre Jeunet.
Ha detto che i suoi libri non partono mai da un’idea, ma dal desiderio di entrare in un mondo esotico, diverso: è stato così anche per la scrittura, era il suo sogno?
Sì. Sono cresciuta in Bretagna, con mio fratello facevo lavori manuali e mi arrampicavo sugli alberi. Poi a Parigi ho studiato letteratura e ho ottenuto un aggregation in lettere, che mi permetteva di insegnare all’università. La scrittura e Parigi per me erano l’esotico in cui volevo entrare: ed erano come due vasi comunicanti. Ho amato imparare la lingua della brigata e metterla nel libro, quel gergo e quei suoni che stanno scomparendo. La musicalità per me conta molto. Non a caso non ho un primo lettore, ma leggo ciò che scrivo ad alta voce, al mio compagno. Come faceva Flaubert.
Veronica Garbagna