Dopo Paul Schrader, Dante Ferretti e Francesca lo Schiavo, era quasi naturale che il Museo del Cinema di Torino invitasse Martin Scorsese, per insignirlo del Premio Stella della Mole e per dare l’opportunità ai suoi moltissimi estimatori, in una città più che mai cinefila, di ascoltar una vera e propria lezione di cinema. E così è stato, grazie alla generosità di un grande maestro che Giuseppe Tornatore, nel discorso che ha accompagnato la premiazione, ha definito: «regista, documentarista, sceneggiatore, produttore, attore, storico del cinema, ricercatore e promotore della conservazione dei film, collezionista di manifesti cinematografici, e soprattutto un instancabile spettatore cinematografico». E di conservazione del patrimonio cinematografico e del suo straordinario progetto avviato con la sua World Cinema Foundation il regista di Taxi Driver ha parlato a lungo durante la conferenza stampa che si è tenuta nell’Aula del Tempio della Mola Antonelliana, raccontando di come abbia deciso di riportare alla luce l’immenso patrimonio filmico che giaceva in stato di abbandono nei magazzini delle Major per poi aprire lo sguardo e rivolgersi ai capolavori dimenticati di tutte le cinematografie mondiali. Il cinema di Scorsese resta impresso per la forza dei suoi personaggi. «I suoi eroi agiscono nella speranza di essere intercettati, visti e compresi, amati o odiati poco importa – dice ancora Tornatore – L’inquietudine che li anima è la medesima che anima lo stesso Scorsese nella lotta per dare esistenza cinematografica alle storie immaginate, ai progetti sognati, sapendo che ogni film realizzato è una vittoria contro l’ignoranza. Perciò Martin Scorsese ha sempre rischiato, rimettendosi puntualmente in gioco, non ha mai ritenuto il successo un fine ma un mezzo. Un mezzo per strappare all’ignoto storie e personaggi da donare al pubblico di oggi e di domani».
«Sono cresciuto in un periodo in cui si stava riscrivendo il cinema. Vivevo a New York, nell’East Side, una sorta di Little Italy, e vedevo da vicino tutto quello che stava accadendo attorno a me, dall’altra parte della città. Stava nascendo un cinema nuovo. A quel tempo (era la metà degli anni Sessanta) si aveva la sensazione di poter fare qualunque cosa, anche lontani dagli Studios. Dall’Europa arrivavano i film della Nouvelle vague francese e del Neorealismo italiano che erano per noi una imprescindibile fonte di ispirazione. Per non venire preso a cazzotti, parlavo velocissimo, cercavo di cavarmela con le parole per uscire da situazioni che potevano diventare spiacevoli. Non funzionava sempre, ma è lì che ho imparato a recitare. A 5 anni ho visto la nascita del Neorealismo, e ne sono stato folgorato perché non c’era più nessuna differenza tra le persone sullo schermo e quello che vedevo nella mia vita quotidiana, tra i protagonisti di quei film e i miei nonni, i miei zii: parlavano tutti allo stesso modo».
Durante la Masterclass (condotta da Domenico De Gaetano e Grazia Paganelli) Scorsese ha parlato a lungo anche del suo metodo, del modo in cui crea personaggi tanto incisivi, appunto. Su Taxi Driver: «credo che il personaggio sia la base di partenza per creare il tessuto emotivo di ogni film. Per esempio, per Taxi Driver il linguaggio della sceneggiatura è stato l’elemento più importante e su cui ho lavorato tanto con Robert De Niro e Paul Schrader. Eravamo molto compatti e anche se tutti erano contro di noi, volevamo fare questo film a tutti i costi. Il film parla di persone alienate e io, in quel momento, mi sentivo proprio così. Alla fine, ci siamo resi conto che tutti, durante la realizzazione, avevamo provato le stesse sensazioni. È stato un lavoro duro che non siamo mai riusciti a esprimere a parole, anche perché sono state l’energia e la passione che avevamo a spingerci a realizzare ogni scena».
E poi si è parlato di musica e delle scelte ardite e coraggiose nell’affidare a Peter Gabriel la musica di L’ultima tentazione di Cristo o di riprendere la colonna sonora originale di Cape Fear, o, dell’incipit fragoroso di Casinò, con La passione di Matteo di Bach.