Marco Maria Linzi: Weiss Weiss. Sulla sparizione di Robert Walser, uno spettacolo necessario

Lo scrittore Robert Walser viene ritrovato cadavere il giorno di Natale del 1956, dopo una passeggiata nella neve. Da 23 anni si era volontariamente rinchiuso nella Clinica psichiatrica cantonale di Herisau decidendo di non scrivere più nulla (a parte i “microgrammi” ritrovati dopo la sua morte) per mettere in pratica il proposito «di scomparire il più discretamente possibile». Alla sua vita e ai suoi scritti (in particolare Jakob von Gunten) rende omaggio il Teatro della Contraddizione con lo spettacolo Weiss Weiss. L’essere del non essere. Sulla sparizione di Robert Walser, scritto e diretto da Marco Maria Linzi con un cast di undici straordinari interpreti, a cominciare dalle sodali di Linzi, fondatrici con lui della Compagnia, Micaela Brignone (potente nei panni del protagonista, una novella Giulietta Masina) e Sabrina Faroldi (in tre diversi ruoli), affiancate da Fabio Brusadin, Silvia Camellini, Simone Carta, Arianna Granello, Alessandro Lipari, Marco Mannone, Eugenio Mascagni, Stefano Montani, Magda Zaninetti. Uno spettacolo bellissimo, una vera esperienza, che come solo il grande teatro sa fare, parla di noi, della nostra inadeguatezza nel mondo e nel tempo in cui viviamo, senza arrogarsi il diritto di dare delle risposte, ma ponendo delle domande. Abbiamo incontrato Marco Maria Linzi.

 

 

Come è nato Weiss Weiss?

Mentirei se sapessi dire in modo lineare come è scaturita questa follia. Qualche anno fa abbiamo fatto La variabile K da Il castello di Franz Kafka. In un certo senso Jakob incarna K dopo tutto il suo viaggio. Anche il libro di Kafka è incompleto, vediamo il viaggio fino a un certo punto e il suo tentativo di voler entrare nel mondo, di essere accettato per quello che è, con tutte le contraddizioni che questo comporta. Diciamo che Weiss Weiss inizia da lì, non a caso Jakob entra in scena di corsa, con uno slancio… Partiamo quindi già da una sorta di fallimento, da alcune domande che lui si fa, su quello che è stato, su quello che sarà e su quello che ha senso che sia.Tutto lo spettacolo è un continuo riferirsi al passato, anche se è un riferimento che accade in scena, si incarna attraverso altri personaggi che in qualche modo assumono, richiamano, evocano le sue inquietudini, il suo passato.

 

Nelle note di regia citi anche Bassifondi di Gorkij.

Sono una suggestione, per me rappresentano il trascorso di Walser, la sua instabilità, la sua povertà, la sua continua ricerca di un luogo dove sentirsi accolto. Walser ha vissuto ovunque, ha passeggiato tanto anche in questo senso, tutto in lui è sempre in movimento, in contraddizione, c’è la ricerca di una casa ma, allo stesso tempo, l’impossibilità di fermarsi e sedersi. I bassifondi in scena nascono anche per evocare e rendere vivi i suoi incontri…

 

Le immagini sullo sfondo, realizzate da Stefano Slocovich, mi hanno ricordato le atmosfere di Institute Benjamenta dei fratelli Quay. È stata una suggestione per te?

Sì, certo. Ci sono anche dei frammenti tratti dal film dei fratelli Quay. Il lavoro ha avuto una gestazione molto lunga e all’inizio le immagini di Institute Benjamenta erano più presenti, poi tutte le cose maturano verso qualcos’altro e anche quei frammenti. Quel film mi ha però dato molto il senso che era necessario per me di abitare il silenzio, l’interiorità di Walser. E questo è rimasto, ci sono svariati momenti senza parole, dove le cose accadono perché è una manifestazione esteriore di qualcosa che accade interiormente.

 

Si può dire che questa sia una caratteristica del tuo teatro?

Sì, lo è. Mi piace far oscillare la realtà, confondere i piani, non sapere se si è dentro il personaggio o fuori, se è un interno o un esterno, questi due piani si muovono spesso perché la realtà che ci circonda non esiste, è solo una raffigurazione semplificata di quello che realmente accade. Paradossalmente questi mondi “creati” alla fine sono più reali di una messinscena realistica…

 

 

 

Per gli attori è uno spettacolo estremamente impegnativo.

Sì, anche a livello fisico. Il mio lavoro nasce sempre dalla sala, ovviamente ci sono presupposti intellettuali, se faccio Walser leggo tutti i libri che ha scritto, anche se uno è centrale, gli altri esplodono lateralmente per comporre il suo percorso, però la sperimentazione linguistica sul lavoro viene prima di tutto. La chiave espressiva è l’elemento più importante per entrare in quel mondo, quindi grande ricerca, sperimentazione, ogni cosa che è in scena ha avuto un percorso e la maggior parte di quello che abbiamo fatto non si vede, abita gli attori da sotto, solo loro sanno il percorso che stanno compiendo. E questo restituisce una realtà viva secondo per secondo. O almeno… questo è il tentativo, ci sono mesi di prova per arrivare a questa “abitazione”.

 

C’è anche un gran lavoro sulle parole, penso all’inflessione nella pronuncia.

Questa è un’altra caratteristica nostra partendo proprio dall’idea che la parola è consumata e che il suo ascolto, la maggior parte delle volte, è dato per scontato. Ci sono casi meravigliosi in cui l’attore riesce a rinnovarla, a scalfirla, a pronunciarla come se fosse la prima volta, ma la consunzione è inevitabile. Per me è anche un modo per ridare senso alle parole e penso sia importantissimo per l’attore: si tratta di utilizzare una maschera reale in cui riuscire prima di tutto a liberarsi e a mettersi di fronte a quella parola in maniera completamente diversa, ma soprattutto si lavora sull’ascolto. Ti ascolti e già ti senti estraneo, straniero rispetto a quella cosa quindi va creato un ponte tra te e quella cosa e questo permette di esporre molto di più il proprio sé, perché in qualche modo la maschera linguistica diventa una sorta di protezione che consente di superare se stessi, di arrivare a quelle che chiamo “esposizioni” e che si verificano quando metti a nudo una parte di te stesso. Alla fine poi questo lavoro sulla lingua permette anche di costituire una realtà nuova, un mondo, una musicalità che tiene insieme la dimensione onirica, il mistero che gira intorno.

 

 

 

Posso capire l’attrazione per Walser. Anche tu, in questi trent’anni, hai scelto di essere libero. È un parallelismo azzardato?

No, non lo è… È solo un po’ più complesso. Diciamo che avrei voluto avere la certezza – certezza forse è una parola grossa – almeno l’idea che il Teatro della Contraddizione potesse sopravvivere senza per forza conciliare un genere di richieste, di visioni, costrette dal mercato. Weiss Weiss va in scena per quaranta persone, ci sono undici attori coinvolti, la scena occupa tutto lo spazio, già questa è una scelta palese, perché io non posso sacrificare i miei processi, il lavoro, il mondo che deve essere costituito in nome della sopravvivenza. Certo, se restringessi la scena, mettessi altri cinquanta posti, sopravvivrei in un altro modo, ma non è possibile. Il vero problema è che per chi fa così non ci sono possibilità né opportunità, anzi il mercato ti butta fuori. Come Walser ovviamente c’è il fatto di essere coerenti con il proprio percorso e accettare anche che questo percorso possa non servire, come dice in un paio di occasioni: «Chi sono io per dire che quello che faccio, quello che sono, la mia identità debba per forza essere accettata dal mondo? Se il mondo si vuole girare dall’altra parte chi sono io per dire che questo è sbagliato?». Quando sei uno scrittore isolato dentro la tua scrittura, dove l’unico riscontro sono la vendita o meno dei tuoi libri, la situazione è ancora più disperante, l’idea della solitudine diventa fortissima come quella di essere sbagliato, la Madre glielo dice («Alza le braccia, arrenditi, non sei fatto per questo mondo»), però sicuramente questa considerazione rimane insieme a quella che anche altri mondi, diversi, con altre regole, dovrebbero avere uno spazio di sopravvivenza. Noi siamo più fortunati perché comunque le persone entrano, poche, ma entrano e, di solito, escono in un altro modo, difficilmente rimangono indifferenti. La mia speranza è che non sia un semplice spettacolo, ma che sia qualcosa di un po’ più necessario.

 

Parliamo dell’assurda situazione che sta vivendo il Teatro della Contraddizione: il rischio chiusura è concreto? Cosa si può fare?

Entro il 27 maggio dobbiamo fare una serie di lavori che se non completeremo prevedono la chiusura del teatro. Il tutto è nato dopo una visita della Polizia annonaria a seguito di una segnalazione che ha comportato una denuncia penale (un mese di carcere per l’attività criminosa che facciamo). Stiamo valutando di lanciare un crowdfunding. A posteriori mi viene da dire che decidere di fare questo spettacolo, in tempi non sospetti, sulla sparizione è stato quasi profetico. Diciamo che in questo caso c’è un’attualità molto concreta e reale…

 

Milano       Teatro della Contraddizione       dal 20 al 23 febbraio