Quando esce il programma del Torino Film Festival la prima cosa che controllo è la sezione Onde. Mi ritrovo nell’idea di cinema di Massimo Causo (e dei suoi collaboratori Roberto Manassero e Grazia Paganelli) e poi ogni anno si fanno delle scoperte. Senza Onde non avrei incrociato lo sguardo di Gurcan Keltek, Jie Zhou, Isaki Lacuesta, Mariano Llinás e sarebbe stato un peccato. Causo, quest’anno, per la selezione è partito da “Nadav Lapid, con la sua urgenza di definire l’idea di un mondo attraverso l’idea di un linguaggio incarnata in una fuga fatta di ribellione, rinuncia, separatezza e rigenerazione”. Grande scelta e premessa per una sezione che ci farà (come sempre) divertire ed entusiasmare.
Hai affermato che “l’imprinting della sezione lo ha dato a inizio anno la visione a Berlino di Synonimes di Nadav Lapid“: questo concetto come si è riverberato sul programma?
Il lavoro di selezione e composizione del programma di una sezione come Onde, che si colloca nel corpo di una manifestazione come il Torino Film Festival di Emanuela Martini, ampio per aspettative, varietà e qualità della proposta, nasce dal confronto progressivo con ciò che il cinema esprime a livello mondiale. La Berlinale è, insieme a Rotterdam, il primo appuntamento dell’anno e diventa necessariamente il punto di fuga della prospettiva nella quale ci si muove durante la ricerca. Se poi accade, come quest’anno, che a vincere Berlino sia un film forte come Synonimes , è chiaro che la sua energia espressiva, la purezza ad un tempo semplice e complessa che mette in campo, ti danno un punto di riferimento difficilmente trascurabile. Nadav Lapid propone un cinema che, nel mettere in gioco il linguaggio come corpo fisico del nostro essere nel mondo, elabora un rapporto problematico con l’idea di identità individuale e collettiva, ritrovando nella Parigi d’oggi l’ispirazione che era appartenuta ai padri della nouvelle vague. E nel fare questo fa un film che è rigorosamente politico, in cui la “gettatezza” del protagonista incarna il fatale smarrimento identitario del nostro tempo, a tutte le latitudini. Se poi accanto a Synonimes poniamo un altro capolavoro come Vitalina Varela di Pedro Costa, che è andato a vincere Locarno, allora il quadro si compone ancora più nettamente, perché anche qui si tratta di confrontarsi con un’opera che elabora la solitudine di un personaggio che proviene da lontano e si cala nel presente per sopravvivere al proprio smarrimento con un atto di forte volontà, di imposizione di sé al mondo. Che poi tanto la Parigi di Lapid quanto la Lisbona (il quartiere ormai fantasma di Fontainhas) di Costa siano dei luoghi ripensati con una sorta di spiritualità visuale e immaginifica, ebbene questo dice una cosa di più a tutto ciò che Roberto Manassero, Grazia Paganelli e io abbiamo amorevolmente raccolto nel corso dei lunghi mesi di selezione di Onde.
Nella selezione hai cercato un equilibrio fra autori affermati e giovani?
Questo lo facciamo sempre, perché è la ragione stessa che muove il nostro lavoro all’interno di un festival come quello torinese. Il dialogo tra i maestri già affermati, quelli che da sempre scorrono nelle vene del cinema di ricerca, e i filmmaker più giovani, che rinnovano di anno in anno l’idea di un filmare che interroga e problematizza l’espressione, l’immagine, il suono, l’identità complessiva e complessa del fare cinema – qualunque cosa questo significhi oggi… Un tale dialogo è la matrice del nostro confronto con gli spettatori, che deve basarsi su risonanze e sorpresa, su riconoscimento e curiosità. Quest’anno, poi, ci piace che la comunità degli autori di Onde sia particolarmente trasversale, per così dire, perché segue una gradualità generazionale che racconta molto bene la continuità di un lavoro di ricerca nel corpo del filmare, alla quale tutti noi ci appelliamo da sempre e per sempre… Sì, insomma, non si finisce mai di essere giovani turchi…
Gli italiani da Tonino De Bernardi a Carlo Michele Schirinzi, passando per Canecapovolto coprono un ampio raggio. Che cinema italiano ti è interessato?
Quest’anno in Onde abbiamo una schiera di italiani della quale siamo molto contenti, perché coprono, anche qui a livello generazionale, un arco di tempo e di intervento che definisce molto bene il nostro percorso. Sono tutti – ognuno a suo modo, ovviamente, ognuno con la sua storia personale – autori che insistono sulla radicalità di un’indipendenza che è espressiva e, di conseguenza, produttiva. Tutti autori che hanno alle spalle un lungo cammino che percorrono con coerenza, pertinacia, insistenza e scavo, ottenendo quel formidabile effetto di una identità alla ricerca di se stessa, che è la vera matrice del cinema nel quale crediamo. Un cinema che è materia visiva e sonora, riflesso incondizionato e analisi approfondita, pulsione del vivere filmando e del filmare vivendo… I due lungometraggi di Schirinzi (Padrone dove sei ) e Terlizzi ( Dentro di te c’è la terra ) sono capitoli di una ricerca che giunge, sia pure in maniera opposta, al bisogno di ritirarsi in se stessi per capire il mondo attraverso il proprio sguardo. Che poi è la spinta che da sempre, di anno in anno, muove il cinema eterno di Tonino De Bernardi (il “tolstojano” Resurrezione ), per il quale la memoria è testimonianza di ciò che è presente, non di ciò che è trascorso. E poi ritroviamo autori che (come lo stesso Schirinzi) da sempre, sin dai loro esordi, teniamo orgogliosamente dentro la nostra “norma”, autori dei quali io, i colleghi della mia generazione e lo stesso Torino Film Festival – insomma “noi” ci occupiamo da molto tempo: Mauro Santini, Salvo Cuccia, il collettivo Canecapovolto, Giuseppe Boccassini, tutti portatori di una potenza visiva dolcemente lacerante, fatta di pensiero e di pulsioni. Senza dimenticare Bruno Bigoni, ovviamente, che assieme a Francesca Lolli giunge in Onde con Voglio vivere senza vedermi, trilogia multiforme che tiene insieme una ricerca sul presente ad un tempo fisica e metafisica.
Se pensi alla tua direzione di Onde come a un percorso, quale strada credi di avere fatto in questi anni e verso quale idea di cinema sei diretto?
La strada che con Roberto Manassero e, da quest’anno, Grazia Paganelli abbiamo cercato di percorrere con Onde è quella che, partendo dal mandato di una sezione rivolta al cinema in cui la ricerca espressiva sia la linea portante, ha trovato il dialogo con il pubblico proprio attraverso la prassi del “linguaggio”: sperimentare il dire del cinema, non la sperimentazione in sé e per sé. L’idea di cinema verso cui sono diretto non saprei dirla, so di sicuro dirti che ho avuto maestri che mi hanno insegnato a guardare con gli stessi occhi tutto il cinema, quello più “popolare” e quello più “sperimentale”…
Con Onde –Artrum hai scelto l’urgenza politica…
Sì, qui si è lavorato, come ogni anno, di concerto con la Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, muovendoci sulla linea di confine tra arte e cinema. Quest’anno Patrizia Sandretto e Irene Calderoni ci hanno mostrato i lavori di un gruppo di artisti che si muovono tra Medio Oriente, Europa del Sud e Asia dell’Ovest. Ci sono piaciuti molto e, d’accordo con loro, abbiamo deciso di puntare su questi: si tratta di autori di rango internazionale, promossi dall’organizzazione artistica no-profit “Protocinema”. Sono opere che riflettono sullo statuto dell’individuo in quanto persona e in quanto figura sociale, portatore di una identità storica e sociale, dunque politica. Fatalmente la selezione va a toccare un punto nevralgico della situazione internazionale contemporanea.
Regalaci qualche suggerimento. Quali sono i film più sorprendenti, le scoperte da fare?
Credo che la cosa più “sconvolgente” in senso letterale che abbiamo siano i 25 minuti di Six Portrait Of Pain montati da Teresa Villaverde a commento della composizione di Antonio Pinho Vargas: un grumo visivo invasivo e lucidissimo, che dialoga molto bene con il potentissimo corpo filmico assemblato da Frank Beauvais per Ne croyez surtout pas que je hurle . Ma mi sembra assolutamente da segnalare anche la doppietta brasiliana di Onde: Sofà di Bruno Safadi e Ontem havia coisas estranha no ceu di Buno Risas, due film di grande vitalità che raccontano molto bene il presente di quella che è la cinematografia più sorprendente degli ultimi anni. Ma lasciami accennare anche alla purezza liminare dello svedese S ä song di John Skoog, al cinema di possessione del francese Emmanuel Parraud con Maudit! , al ritratto in penombra di Pedro Costa offerto da Jiluo Alves in Sacavém e agli autoritratti di famiglia di Romina Paula con De nuevo otra vez e di Lucia Margarita Bauer con Maman Maman Maman.