Raoul Peck: James Baldwin mi ha cambiato la vita

All’anteprima di I’m Not Your Negro, durante il  FCAAL – Festival del Cinema Africano, Asia e America Latina di Milano, il regista Roul Peck si è proposto in un incontro molto appassionato, sincero e ricco di suggestioni.

 

Io e Baldwin

Ho avuto la fortuna di leggere Baldwin molto presto, a 18 anni, e mi ha cambiato la vita. Mi ha dato le parole per esprimere quello che sentivo in maniera istintiva e mi ha dato una struttura per guardare al mondo. Da allora ad oggi non ho mai smesso di avere Baldwin accanto a me. Circa dieci anni fa ho sentito il bisogno di rimettere i suoi testi al centro della scena. Vivevamo in un mondo in cui in Occidente avevamo messo completamente da parte l’ideologia e la scienza, e in una grande confusione, in cui era difficile ritrovarsi. Già si sentiva allora il genere di discorsi che Trump fa oggi e io non sarò maleducato a citare Berlusconi qui. Siamo arrivati ad un punto oggi in cui l’ignoranza ha preso tutto il potere, in cui un Presidente può permettersi di esprimere un’opinione che ha lo stesso valore di una ricerca scientifica durata quarant’anni. Per questo ho avuto voglia di rimettere le parole di un uomo di valore come Baldwin al centro del dibattito, nella speranza che possa fare per le giovani generazioni di oggi quello che ha fatto per me.

 

Samuel L. Jackson non è solo una voce narrante

All’inizio per me il film era quasi impossibile da fare, perché tra le mie scelte politiche ed estetiche c’era anche quella di utilizzare solo le parole di Baldwin, di creare una struttura drammatica con delle parole che esistono già, eliminare tutti i tentativi di interpretazione – tramite interviste o esperti- e utilizzare tutte le immagini di cui avrei avuto bisogno, che fossero di film classici di Hollywood, d’attualità, o che fossero girate da me. La cosa più complicata da gestire era avere un’altra voce narrante sulle immagini di Baldwin (non la sua originale) senza creare confusione tra le due cose. Forse è proprio questa la magia del cinema: dal mio lavoro con Samuel L. Jackson è risultato che quella voce non sia solo la voce narrante, off screen, ma un vero e proprio personaggio. Era necessario che Jackson si sentisse Baldwin senza interpretarlo ma semplicemente sentendolo, nella sua anima, nel suo mondo di essere, ed è per questo che funziona.

 

La scelta del titolo

Cerco di mantenere in tutti i Paesi in cui uscirà il film il titolo in inglese, I’m Not You Negro, che è già un titolo provocatorio, negli Stati Uniti. Ma che viene accettato perché ha delle connotazioni storiche. Non l’avrei mai intitolato I’m Not Your Nigger perché avrebbe voluto dire andare oltre la provocazione e avrebbe creato altri problemi, di cui il film non ha assolutamente bisogno. Ho pensato molto al titolo. Quello di lavorazione era Remember This House, come il libro incompiuto di Baldwin. Ma al montaggio mi sono reso conto che si sarebbe dovuto spiegare la metafora del titolo. Quindi mi sono detto che non c’era nessun motivo per cui non avessi dovuto assumere la radicalità di Baldwin e ho scelto il titolo attuale.

 

La corsa all’ Oscar

È un po’ difficile parlare per me degli altri film candidati agli Oscar, perché con i loro autori siamo stati insieme per un mese e diventati amici, e non è il caso di criticarli in pubblico. Ma qualunque sia il valore di ogni film, posso dire che è una procedura lunga, durissima, molto selettiva. Spetta ai membri dell’Academy fare la scelta e come sappiamo è gente piuttosto conservatrice.In questo processo di selezione i soci dell’Academy intervengono alla fine, perché nel processo sono i documentaristi a fare la scelta iniziale. C’è anche una campagna che mette insieme l’associazione dei critici e dei documentaristi, quindi si crea una specie di ambiente attorno ad ogni film e anche questo ha molta influenza. I’m Not Your Negro ha avuto la sua anteprima mondiale al festival di Toronto e ha avuto il premio del pubblico come miglior documentario, mentre nella categoria film di finzione ha vinto La La Land. Quindi è vero che ha avuto fin da subito una grande visibilità, e da settembre a febbraio, quando il film è uscito in sala negli Stati Uniti, siamo sempre stati molto avanti nella campagna nei media. Ha ricevuto molto premi del pubblico nei festival negli USA e uscendo il 2 febbraio ha avuto grande risonanza di stampa. Il successo commerciale è stato immediato, e anche questo ha molta importanza negli Stati Uniti. Fino ad adesso è il film indipendente che ha incassato di più nel 2017.

Baldwin e Hollywood

Baldwin era anche un critico cinematografico, ma è andato oltre: ha fatto una grande analisi della società, decostruendo tutto il cinema hollywoodiano, provando, con gli esempi, che nessun film è mai completamente innocente. Il cinema americano è sempre stato dominante in tutto il mondo e oggi ancora di più è vettore di molta ideologia, cultura, commercio, di una visione del mondo, che Baldwin ha saputo decostruire, anche quando questa sembrava progressista. Quando parla di Sidney Poitier (in Indovina chi viene a cena? o in La parete di fango, ndr) dice che i neri non hanno mai veramente apprezzato l’uso che Hollywood ha fatto di lui, perché uno stereotipo, anche quand’è positivo, rimane stereotipo, ed è un altro modo per negare la realtà.

 

Malcom X e Martin Luther King

Baldwin ha cercato di mostrare che siamo in un mondo in movimento, e che lo siamo noi stessi, e ha avuto il coraggio di mettere faccia a faccia Malcolm X e MLK che sono in effetti due clichés nella cultura americana: il violento e razzista e il predicatore gentile. Mentre Baldwin parla di come questi due uomini si sono avvicinati, fino a diventare uno. Ma non è quello che la storia vuole ricordare, perché costruendo dei monumenti a MLK e non a Malcolm X è un modo per seppellire il movimento. ed è quello che è successo negli ultimi anni trent’anni negli Stati Uniti. Gli ultimi anni di MLK inoltre sono stati estremamente radicali. Non solo aveva criticato aspramente la guerra in Vietnam, ma aveva lasciato completamente l’agenda di razza per dedicarsi a un’agenda di classe. Baldwin ha cercato di integrare un movimento che fosse più ampio possibile, non aveva mai fatto parte di nessun movimento, perché era profondamente umanista. È per questo che riesce a parlare in modo radicale, anche molto duro, ma senza respingere lo spettatore.

Il mo cinema

Un po’ come Baldwin non mi lascio definire da un cinema solo, ho diversi terreni di lavoro, di battaglia, e quindi mi muovo in modi diversi. E mi batto sempre dove sono. Quanto a Haiti, ho passato tre o quattro anni a fare un film sulle derive degli aiuti umanitari ad Haiti è stato visto in tutto il mondo, ma visto che è molto importante per Haiti, ne abbiamo fatto una versione creola e distribuito gratuitamente a tutte le tv del paese, che lo hanno trasmesso alla stessa ora lo stesso giorno in tutto il Paese, e ha avuto un impatto importante. Ad Haiti al momento c’è un grosso problema, in quanto non ci sono sale cinematografiche. Lì esiste il problema di razza, ma è più di classe. Il film si pone in un’ottica più larga, si rivolge a tutto il mondo, a quello che sta succedendo, soprattutto all’Occidente, che si è sempre creduto al centro di tutto. Credo che la voce di Baldwin sia fondamentale soprattutto per quello che sta succedendo negli Stati Uniti e in Europa, dove si risponde alla crisi in modo cieco, retrogrado. Quando un haitiano attraversa il Brasile e risale tutta la costa per arrivare a San Diego non è pronto a morire senza battersi.

 

Fra pessimismo e ottimismo

Per tutta la mia vita adulta ho proibito a me stesso di pormi la domanda se essere ottimista o pessimista. Quello che mi interessa è confrontarmi con la realtà. Non posso permettermi di essere né pessimista né ottimista perché se sono pessimista cosa dovrei fare? Spararmi un colpo in testa? Se sono ottimista, dovrei mettermi a ballare? Dal mio punto di vista la cosa più importante e complicata è avere ogni giorno la maturità di affrontare la realtà delle cose, perché è molto dura e complessa. Baldwin dice una frase importante nel film: «bianco è una metafora per il potere». Se c’è un tratto comune a tutti i miei film è che parlano di potere (l’ultimo è Le jeune Karl Marx, che affronta il periodo dell’incontro con Engels, presentato al Festival di Berlino 2017, a oggi non acquisito da nessun distributore italiano). Esiste anche un potere nero, non è una questione di razza ma di classe. Quella di Baldwin è un’analisi quasi marxista.