Nonostante la sua corposa filmografia il cinema non è stato generoso con Ringo Lam, e forse nemmeno la vita essendo scomparso alla età di soli 63 anni. Spesso un furto ti rende famoso, ma se Akira Kurosawa per il presunto plagio di Per un pugno di dollari (1964) da Yōjinbō (La sfida del Samurai, 1961) ci guadagnò sia in soldi sia in notorietà, non è accaduto lo stesso per l’altrettanto evidente e a denti stretti riconosciuto plagio di Reservoir Dogs (Le iene, 1992) da Cold War (Lung foo fung wan, 1987). La New Wave hongkonghese restò un fenomeno di nicchia, ben conosciuto e ammirato nella cinefilia da cui proviene lo stesso Quentin Tarantino, ma mai mainstream e sempre marginale nella distribuzione da festival, quella che consacra gli “autori”. Plagio e autorialità sono categorie da usare con le pinze e la prima non ha alcuna validità nel campo dell’arte. La seconda a Ringo Lam è stata negata o riconosciuta solo in ambiti ristretti, di certo a Hong Kong, dove nella seconda metà degli anni ottanta cadde, insieme a John Woo, come una meteora proprio con il film che Tarantino ricopiò nella seconda parte del suo. All’estero Ringo Lam dovette invece accontentarsi di diventare il regista preferito di Jean-Claude Van Damme, per le sue qualità nella messa in scena delle sequenze d’azione. Qualità non secondarie per decifrare l’autorialità di questo regista, ma che troppo spesso lui ha dovuto limitarsi a mettere al servizio di progetti estranei alla sua personalità. Siamo certi che oggi sarebbe stato diverso. Hong Kong gode ormai dell’enorme mercato cinese, il più grande del mondo per numero di sale e incassi, e molti registi e attori di Hong Kong stanno tornando a Shanghai, la metropoli da cui negli anni quaranta era iniziata la migrazione verso il protettorato inglese. E Ringo Lam, prima di morire, non era certo né solo né dimenticato, la sua rivoluzione aveva dato avvio a una leva sempre più presente e importante di registi e attori. Al contempo è proprio dal pubblico a loro più attento che viene la limitazione, ancora oggi, più grave. Specie in Occidente dove prevale una neutra accondiscendenza verso la spettacolarità fine a se stessa e il sapore ormai retrò di una fraintesa postmodernità. È questo uno sguardo “occidentale” che rende più deboli i registi come Lam, specie ora che si devono confrontare con le regole ancora politicamente controllate del mercato cinese.
Non è quindi facile ammetterlo, ma la scomparsa prematura di Ringo Lam apre ad un vuoto ancor più grande. Ci lascia immaginare cosa possa essere scoprire domani l’esito di una illusione e lo svanire di una speranza. In Occidente si è assistito con un entusiasmo molto facile e poco consapevole al suo exploit nel 1987 (City on Fire), subito dopo quello di John Woo del 1986 (A Better Tomorrow). Erano due film che segnavano al contempo la risposta matura e rabbiosa al disagio di lavorare dentro la macchina industriale di Hong Kong, e il riemergere di una lunga tradizione cinese di cui quella macchina viveva, svendendone il valore. Si parlerà di New Wave, ma in verità siamo dentro una storia di mancate o fraintese liberazioni, impotenti future emigrazioni e altrettanto implosivi ritorni in patria. Un filone d’oro che restava nascosto allo sguardo più superficiale, e faceva smerciare “pepite” al valore del rame. Proveremo a raccontarlo in questo resoconto di una carriera, per altro giunta da poco a una svolta. Dopo una lunga pausa, Ringo Lam era tornato dietro la macchina da presa e, pur intravedendosi le debolezze del sistema, dove vige una implicita e quindi ancor più pervasiva censura cinese, nessuno ci poteva levare la speranza di vederlo rimettere in gioco l’intelligenza e la maestria di cui era capace. L’età poteva essere quella giusta, così le nuove condizioni offerte dall’enorme nuovo mercato della Cina. Ne è testimonianza la stessa lavorazione lasciata a metà, Baat Bou Bun (non si ha ancora un titolo internazionale): una serie di otto episodi per raccontare la storia di Hong Kong dagli anni ’40 ad oggi, diretti rispettivamente, oltre a Lam, anche da Ann Hui, Sammo Kam-Bo Hung, Patrick Tam, Tsui Hark, Woo-Ping Yuen e lo stesso John Woo. A questi si aggiunge la figura chiave di Johnnie To, che cura anche la produzione dell’intera serie, lo stesso che nel 2007 aveva smosso dal torpore Ringo Lam per un film, Triangle, composto da tre episodi di trenta minuti, anche questo diretto da loro due, oltre che da Tsui Hark, con cui Lam aveva già condiviso una regia. Forse in questi anni il film più nostalgico che Hong Kong poteva regalarci del suo futuro vertiginoso ancora solo annunciato. Ringo Lam era fermo dal 2003, dopo un’ennesima perdente produzione statunitense con Jean-Claude Van Damme e finalmente dopo 12 anni, nel 2015 ritorna a dirigere film d’azione ad Hong Kong, Wild City (Bou Chau Mai Sing), e l’anno successivo Sky on fire (Chongtian huh), del 2016.
A letto dal mattino per una banale influenza, a detta di alcuni, curata con farmaci non prescritti dai medici, nel primo pomeriggio di sabato 29 dicembre Ringo Lam viene trovato morto dalla moglie, nella sua villa sulla Sai Sha Road della Symphony Bay di Hong Kong . Non si hanno notizie della causa del decesso e tutti testimoniano che godesse di buona salute. All’arrivo dell’ambulanza è stato solo confermato il già avvenuto decesso. Negli ultimi anni si era allontanato dalla carriera per vivere con maggiore serenità la vita famigliare, oltre che poter uscire da quella routine cui il cinema lo aveva costretto e tornare all’osservazione dal vero che vedremo essere la natura più profonda del suo cinema. Ciò non leva che il primo giorno delle riprese di Wild City lui sia svenuto per un colpo di calore. Un singolo insignificante episodio perché da allora aveva ripreso a lavorare con il ritmo del cinema di Hong Kong, dove lo stress fa parte del gioco. Ovvio che il mondo del cinema di Hong Kong ne è rimasto sconvolto e l’anziano presidente onorario dell’associazione dei registi, Joe Cheung Tung-cho (sua la sceneggiatura di L’Urlo di Chen terrorizza anche l’Occidente, del 1972 con Bruce Lee) ha annunciato una iniziativa per commemorare Ringo Lam.
Nato nel 1955 con il nome di Lín Lǐngdōng, la sua prima formazione è presso la TVB (Television Broadcasts), la più antica emittente di Hong Kong, dove Ringo Lam dirige anche dei telefilm. Il cinema di Hong Kong gli stava stretto sin dalle origini ed emigra in Canada per studiare regia a Toronto. Ritorna nel 1981 e inizia a girare film su commissione. Il cinema di Hong Kong è una macchina industriale, con orari precisi e poche deroghe all’unica regola che è la produttività. L’esordio stesso di Ringo Lam è un subentro con macchina in corsa, a sostituire il regista di Esprit d’amour (Yam yeung choh), una commedia fantasy da cui un regista già affermato come Po-Chih Leong si ritirò improvvisamente, nel 1983. L’esordio gli consentirà di dirigere altri tre film, un anno dopo l’altro, nessuno di questi sulle sue corde e di cui non si sentirà mai autore: nel 1984 un’altra commedia fantasy, The Other Side of Gentleman (Jun zi hao qiu); nel 1985 ancora una commedia, ma semplicemente romantica, Cupid One (Oi san yat ho); per infine sperimentarsi, nel 1986, con l’action seriale, sempre in forma leggera, Mad Mission 4: You NeverDie Twice (Zui jia pai dang 4: Qian li jiu chai po). I tempi si fanno ormai maturi per la svolta. John Woo, anche lui insofferente di continuare a dirigere scialbe commedie sentimentali, esce con A Better Tomorrow, con Chow Yun-Fat nel ruolo protagonista. È il segno della svolta. Chiamando a lavorare con lui lo stesso attore, ma con un registro tutto nuovo, Ringo Lam ottiene dal produttore d’origine cinese Karl Maka quattro milioni di dollari di Hong Kong, con libertà di poterne fare qualsiasi cosa. Si mette al lavoro, insieme allo sceneggiatore Sai-Shing Shum (Tommy Sham nei credits), su un suo vecchio progetto in chiave hard-boiled, e reinventa il genere action, come un tempo negli USA fece Jules Dassin con The Naked City (La città nuda, 1948). Porta l’azione nelle strade di Hong Kong come nessuno aveva osato fare prima. Fa correre Chow Yun-Fat nel traffico, riprendendolo da un furgone dove nasconde la troupe. In una famosa scena senza controfigura, lo fa saltare dal secondo piano riprendendolo “dal vero” con un singolo take, montato poi senza stacco. Nasce così, nel 1987, il secondo film evento della New Wave di Hong Kong, City on Fire (Lung foo fung wan). Al posto dell’epica cavalleresca, da Samurai, di John Woo, con rallenti e duelli con due pistole da far roteare come spade in entrambe le mani, qui abbiamo un realismo crudo, e lo scenario della città che diventa personaggio. Sono le due principali tradizioni cinesi che si confrontano, il Wuxia e il Realismo. La prima aveva i suoi principali centri di produzione, soprattutto letteraria, nel nord della Cina. Simile al nostro “cappa e spada” nasce insieme alle rivolte studentesche dell’inizio del ‘900 e sono una rottura individualista con i principi comunitari già del confucianesimo. Per la stessa ragione, essendo molto popolare, fu proibito dal regime comunista una volta instaurata, decenni dopo, la Repubblica Popolare. La tradizione del Realismo è maggiormente legata alla seconda stagione di rivolte anti giapponesi e si concentrò invece nelle regioni del sud, trovando nel cinema di Shanghai ampio respiro. Quella stessa cinematografia che, instauratasi la dittatura della Repubblica Popolare, costrinse molti dei suoi protagonisti a emigrare a Hong Kong e contribuire in modo fondamentale alla fortuna della sua industria cinematografica. Con l’esito che alle limitazioni politiche si sostituirono quelle del mercato, incline a occupare uno spazio prettamente destinato al prodotto standardizzato e senza possibilità, sino all’evento Bruce Lee, di misurarsi con quello internazionale.
Tra il Wuxia e il Realismo, quello che rompe in modo più radicale con le regole del mercato è sicuramente il secondo. Questo spiega anche la minore fortuna di Ringo Lam rispetto a John Woo. Ma per entrambi vale lo stesso discorso. Un confronto quanto più suggestivo perché costruito sullo stesso corpo filmico prestato da Chow Yun-Fat, straordinario nell’interpretarne tutte le differenti modulazioni di stile e di senso. Si possono contare quasi lo stesso numero di film con l’uno e con l’altro. Nei film di Ringo Lam, il suo corpo è aggredito oltre ogni limite di decenza, e mentre nel cinema di John Woo si fa corpo mistico e sacrificale, in quello di Lam è solo sofferenza sociale, degrado senza scopo. Il cinema di Lam è un cinema amaro, anche quando si concede delle pause di lirismo. La Storia resta uno scenario oscuro e minaccioso, l’Individuo trova pace solo al riparo da essa ed è un combattimento impari. Il successo di City on Fire è enorme. Incassa al botteghino 20 milioni di dollari di Hong Kong e gli viene assegnata la “Migliore Regia” agli Hong Kong Film Awards. Ringo Lam ha già pronto il suo nuovo film, e può finalmente costruire un proprio team. Dal film in presa diretta sulla città “nuda”, passa al luogo coercitivo per eccellenza, il carcere. Impossibile non ricordare, continuando il confronto con Jules Dassen, la Forza Bruta del 1947. Quello di Lam, quarant’anni dopo, è Prison on Fire (Gam yuk fung wan) del 1987. Chiama a lavorare con lui suo fratello maggiore, Yim Lam, da lui definito “enciclopedia ambulante degli inferi”. Grande raccoglitore di storie, accumulatore di ritagli di giornale, indagatore di cronache, per un regista che ama a sua volta collezionare paesaggi urbani e costruire le sue storie sulle location è il connubio perfetto. Ne esce un film che oggi è un documento di antropologia, per come documenta le complesse interazioni sociali e famigliari dentro una zona periferica ormai scomparsa di Hong Kong, all’epoca un villaggio rurale. Ringo Lam non ha timore allora di sfidare ogni regola e porta subito a termine, nel 1988, un altro film, ancora “di fuoco”, e questa volta spostandosi in un altro luogo di coercizione con School on Fire (Hok hau fung wan). Progetto ambizioso che si trasforma nel suo film più censurato e sofferto. Non ne vedremo mai il director’s cut perché subirà tantissimi tagli di censura. La Scuola viene presentata come una istituzione atta a trasformare i cittadini in sudditi sottomessi. La malavita, in modo sempre più esplicito, è solo uno strumento della rete che costruisce il potere come struttura condivisa di regole. Le Triadi sono oggetti simbolici di moda, ma si trasformano presto in oggetti reali di oppressione, complici lo Stato con i suoi poliziotti corrotti e la stessa Famiglia con genitori impotenti e ipocritamente ciechi. I ragazzi sono artefici in prima persona del loro destino di oppressi dietro la facciata di uno stile di vita alternativo. Non c’è speranza. E la critica, dopo la commissione di censura, si scaglia anche lei contro il film. Emarginati, carcerati e ora anche studenti, diventano oggetto di slanci melodrammatici e poetici, come gli uccelli in fuga dall’edificio mentre dentro si sta scatenando la rissa che ne rompe le gabbie. Il film si chiude con la protagonista che si suicida gridando “Non andrò mai più a scuola! Non studierò mai più!”. Forse Ringo Lam ha superato il limite. Cercherà nei film successivi di costruirne a suo vantaggio, dentro una cifra di genere, tra poliziesco e carcerario. Seguono così, un anno dopo l’altro, nel 1989 Wild Search (Ban wo chuang tian ya), nel 1990 Undeclared War (Sheng zhan feng yun) e nel 1991 Prison on Fire II (Gam yuk fung wan II: To faan) e Touch and Go (tit. alternativo Point of No Return; t.o. Yi chu ji fa). Si arriva così al film, nel 1992, che segna l’incontro con Tsui Hark, coregista, e con Jackie Chan, The Twin Dragons (Seong lung wui). È un ritorno alla commedia dove poco emerge della personalità di Lam, ma nello stesso anno esce di nuovo, con il fratello come sceneggiatore e Chow Yun-Fat protagonista, Full Contact (Xia dao Gao Fei), tra i suoi film più interessanti, assolutamente e volutamente sopra le righe, esagerato, di maniera e quindi fortemente personale e indigesto. Quasi il bisogno di controbilanciare le pressioni del mercato (l’eterna commedia) e provare al contempo a fare leva su di esse (l’iperbole del film d’azione). Nel primo emerge un topos che tornerà in altri film, quello del doppio, dei due fratelli o del proprio clone. Nel secondo il doppio è tra due amici, tra tradimento e abbandono, e la necessità di tornare ad essere solidali. Quanto le condizioni di mercato stessero strette a Ringo Lam è evidente dall’incursione, con una dilatazione nel ritmo produttivo, anche nel genere del fantasy kung fu, con Duello al tempio maledetto del 1994 (The Rape of the Red Temple; tit. alternativo Burning Paradise; t.o. Huo shao hong lian si), film con cui per la prima volta arriva anche in Italia. È il preludio per lo sbocco americano, preceduto da un film d’azione costruito su misura per il divo pop hongkonghese Ardy Lam, The Adventurers (tit. alternativo Great Adventurers; t.o. Da mao xian jia), del 1995. Il film è girato sia in Cambogia sia negli Stati Uniti e l’anno successivo esce Maximum Risk, il primo film dell’esperienza americana con l’attore belga, specializzato in film per stuntman e arti marziali, Jean-Claude Van Damme. Seguiranno, dopo diversi rientri in patria, altri due film: The Replicant nel 2001 ed Hell – Esplode la furia(In Hell) nel 2003.
Il rapporto mancato tra Hollywood e Hong Kong, come ogni storia d’amore, ha forse due colpevoli, ma è difficile non vedere le colpe del primo. Già l’esperienza di Bruce Lee ci racconta di un razzismo sottile, e di un ritorno nelle terre d’origine (la famiglia era di Canton) che ha il sapore della vendetta di Davide su Golia. Ora la direzione si inverte e i due protagonisti della New Wave hongkonghese vengono entrambi chiamati a lavorare negli USA. John Woo avrà di certo molte occasioni e forse se le giocherà al meglio solo con Face/Off del 1997. I suoi film alla fine risulteranno privi di quel tratto distintivo che li differenzia proprio nel linguaggio. Il ralenti e i ritmi a tratti invece rapidissimi della narrazione sono come la modulazione musicale di una lingua. Perderli per parlare la lingua hollywoodiana è come snaturare il film. Non lo capiscono entrambi. Anche Ringo Lam negli anni novanta sembra fare fatica, già ad Hong Kong, a dare forma alla sua personalità. Del realismo e della capacità di radicare il suo cinema nelle location può rimanere davvero poco, anzi nulla, nel lavorare per Van Damme. Resta la maestria nella direzione degli stuntman, aspetto a cui Lam tiene molto. Paradossalmente se ne lamenterà proprio tornando a lavorare in questi anni, a distanza di tempo. Il digitale ha cancellato la necessità di dover rischiare con attori in scena e Ringo Lam dichiara che per lui questa è una difficoltà, visto il suo statuto realista, ma è anche un grosso rischio per il cinema tutto di Hong Kong, che non ha molte altre eccellenze da vantare, mentre su altri fronti sono emersi con forza la Corea del Sud e la stessa Cina. L’esperienza americana di certo non darà la fama internazionale a Ringo Lam, mentre per John Woo questa arriverà con la consacrazione a regista di scuderia per Mission Impossible. Al contrario darà a Lam maggiore vigore tornando a lavorare in patria. Con un budget ridotto all’osso e soli 34 giorni di riprese, torna a girare senza scrupoli film dentro la città affollata e aggiunge un tocco di sarcasmo rasentando lo slapstick, in Full Alert (Go do gaai bei) nel 1997. È il film con cui giunge per la prima volta al Far East Film Festival di Udine, che muoveva in quegli anni i suoi primi passi. Vi tornerà per tre anni di seguito, dal 1998 al 2000, con The Suspect (Jidu zhongfan) del 1998 e Victim (Mu lu xiong guang) del 1999. Sono film che smantellano e rimettono in piedi con fuochi d’artificio il genere poliziottesco, nell’ultimo persino rischiando una strana commistione con l’horror. Soprattutto il primo si riannoda agli altri film sulla città, questa volta cercando di fermare i luoghi che presto saranno oggetto di una radicale trasformazione dopo la riunificazione di Hong Kong, nello stesso anno, con la Repubblica Popolare. C’è una presa di posizione politica sottile dietro film come Full Alert, che Ringo Lam alterna ai suoi impegni negli USA con Van Damme. Una qualità che piano piano vediamo scemare nei suoi film hongkonghesi. Nulla si può contestare a Looking for Mr. Perfect (Kei fung dik sau), del 2003, il suo ultimo film ad Hong Kong. Siamo tornati dentro lo statuto della commedia, i personaggi sono costruiti con gusto e misura per un pubblico mainstream, le gag sono perfette e le scene d’azione sono da manuale ed estremamente divertenti e spettacolari. Il pubblico di Hong Kong continua a premiare Ringo Lam, ma lui avverte la routine, se ne dichiara pubblicamente stanco e sente sempre più l’esigenza di fermarsi. Seguirà una lunga pausa di cui abbiamo raccontato. I suoi ultimi film mostrano un cedimento alla censura, nel dipingere come forze del bene e non corrotte i poliziotti cinesi. Lo sguardo restava però impietoso e saremmo stati curiosi di vedere se l’occasione non sarebbe diventata quella giusta. Il destino ha voluto lasciarci nel dubbio. Toccherà ad altri raccogliere la sua sfida.