13th e la costruzione del nemico afroamericano

«La schiavitù o altra forma di costrizione personale non potranno essere ammesse negli Stati Uniti, o in luogo alcuno soggetto alla loro giurisdizione, se non come punizione di un reato per il quale l’imputato sia stato dichiarato colpevole con la dovuta procedura». Così recita il tredicesimo emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, considerato un baluardo di civiltà e un immutabile esempio del superamento della barbarie schiavista. A leggere bene, però, c’è un’eccezione sulla quale si tende a sorvolare, il “se non” più sottovalutato della storia della civiltà americana. Perché la schiavitù è cancellata per tutti tranne che per chi deve scontare la punizione di un reato. Sembra un cavillo ma non lo è. A partire da questo meccanismo capace di generare un ingranaggio brutalmente distorto, Ava DuVernay ha costruito il suo XIII emendamento, realizzando interviste (di voci diverse e mai scontate: storici, politici, attivisti, giornalisti investigativi, docenti) e raccogliendo materiale di repertorio e alternandoli tra loro in modalità classica ma resa esplosiva dalla qualità del ragionamento e dalla ostinata ricerca di una visione complessa, assai rara in gran parte del cinema contemporaneo documentario e non. Il punto di partenza è un dato impressionante: gli Stati Uniti rappresentano il 5% della popolazione mondiale ma i detenuti americani sono il 25% della popolazione carceraria globale.

 

Qual è la causa di questi numeri? Bisogna partire da lontano: alla base di tutto, ci racconta DuVernay, c’è il crollo del sistema economico degli Stati del Sud a seguito della sconfitta nella Guerra Civile e all’abolizione della schiavitù, fonte inesauribile di forza lavoro a costo zero. Proprio per rilanciare l’economia depressa della zona bisognava pensare a come sostituire lo schiavo oramai liberato. L’idea più semplice sembrò quella di riempire le carceri – solitamente mettendo dietro le sbarre proprio gli ex schiavi, come in un perverso circolo vizioso – e usare i prigionieri come operai non pagati, grazie a quel famigerato “se non” contenuto nel testo dell’emendamento. Da questo punto di partenza, tanto razziale quanto politico ed economico, Du Vernay traccia una storia di come si sia costruita l’immagine – e l’immaginario – del criminal negro, dalla Nascita di una Nazione di Griffith all’uso manipolatorio dei media in anni più recenti (Don’t Believe the Hype, come cantavano i Public Enemy nel 1988). La questione razziale è forse la cartina di tornasole più adatta per analizzare la Storia americana: dalle recrudescenze del Ku Klux Klan alle Jim Crow Laws che dettavano le regole segregazioniste; dai sistemi di incarcerazione di massa alle War on Drugs reaganiane che avevano come obiettivo la distruzione dall’interno delle black communities e che hanno realizzato il risultato dell’incremento esponenziale della popolazione carceraria di colore. Il fantasma del “super predatore”, invocato da tutti i presidenti americani – dai reazionari Nixon, Reagan e Bush, ma anche e soprattutto dai democratici e forcaioli Bill e Hillary Clinton – e preso come necessario stimolo alla repressione da parte di legislatori e forze dell’ordine, è stato il grimaldello per perseguire una politica che azzerasse l’inclusione sociale e che facesse, in maniera multiforme e cangiante come una malattia, gli interessi di lobbies e corporations. DuVernay racconta la sua storia come fosse un horror, dove il mostro che minaccia gli anelli più deboli della società è lo stesso sistema che dovrebbe difenderci. La punteggiatura del film è affidata ai numeri dei detenuti in perenne ed esponenziale crescita (da 200.000 a 2.300.000 in poco più di quarant’anni) e usa come un metronomo la musica politicamente consapevole dei principali esponenti soul e hip hop (da Nina Simone a Usher, passando per The Roots e NAS); la narrazione si ramifica senza mai perdersi, grazie a una precisa visione di insieme che mette insieme politica, economia, giurisprudenza, etica, corpo (sociale e fisico). L’incarcerazione di massa, il virus mortifero del motto Law and Order (che sembra essersi ormai diffuso in tutto il mondo occidentale), la sistematica decapitazione dei movimenti legati al Black Power con ogni mezzo necessario, l’utilizzo dei metodi brutali della guerra lampo per risolvere delicate questioni sociali, la legislazione discriminatoria (di razza e di classe) e l’uso del sistema giudiziario come strumento di tortura, ricatto e oppressione, il tragico epilogo dell’elezione di Trump, ancora non eletto presidente ma colto in piena campagna elettorale a rimpiangere i good old days in cui i manifestanti di colore venivano trattati con le cattive: la storia americana è rappresentata come una via crucis in cui la vittima predestinata è il cittadino di colore, privato dei diritti e dei mezzi per difendersi. Quello di DuVernay è un tragico muro del pianto, costruito con i mattoni delle vittime della violenza poliziesca di questi anni ma anche con la manipolazione dell’informazione, alleato fedele del potere bianco nella costruzione del nemico afroamericano. XIII emendamento, con il suo spirito critico e didattico, con il suo fervore militante, con il suo alternare freddi numeri e vivide e raggelanti immagini – non evitando neanche di mettere in discussione la moralità del loro uso – è forse uno dei più interessanti e complessi esempi di film-saggio, una sorta di discorso sullo stato dell’Unione rovesciato che ci sbatte in faccia un genocidio distillato messo in pratica in quello che si autodefinisce da sempre come il paese delle libertà.