Sfogliando le pagine del diario personale di Hong Sang-soo, tra il bianco vagamente abbacinante e il nero sempre più ingrigito come i suoi capelli, si trovano ormai i fantasmi di una coscienza aggrappata alla resistente stanchezza delle emozioni quotidiane, dei sentimenti che mordono qua e là le ore e i giorni. Ormai il maestro sudcoreano compone i suoi film con le frequenza costante di un diarista della macchina da presa, tant’è che i titoli di testa di questo suo ultimo film, Hotel by the River (Gangbyun Hotel, in Concorso a Locarno 71), come spesso accade scritti a mano, sono anche letti dall’autore e dichiarano diligentemente le date di inizio e fine delle riprese. Con effetto un po’ lapidario, del resto, a impostare adeguatamente il discorso di un’opera che tutto sommato conta il tempo di una fine, descrive l’uscita di scena di un poeta che canta la bellezza della vita mentre ne sente il termine ultimo.
Il non luogo indifferenziato che ospita l’introflessione spirituale in cui Hong Sang-soo circoscrive i suoi personaggi è ancora una volta un hotel fuori stagione, disarticolazione del luogo identitario domestico e del fuori orario esistenziale offerto a figure che si avvitano su se stesse, sui loro amori, sui rancori e le riconciliazioni, le paure di una vita e le liberazioni estreme: c’è un anziano poeta che si è sistemato lì in cerca di pace, scrive i suoi ultimi versi, guarda la neve che imbianca il paesaggio, osserva con dolcezza l’immagine della bellezza che vede incarnata nella ragazza della stanza accanto, anche lei in ritiro volontario dalla vita e da un qualche dolore subito. In quell’eremo il poeta ha però convocato i due figli: un maturo uomo d’affari e il fratello più giovane e insicuro anche se già regista cinematografico di successo. Il vecchio padre li vuole vedere perché ha come il sentimento che la vita stia scorrendo via dal suo corpo e l’incontro dei tre è l’occasione per qualche pacato chiarimento, rari e poco sentenziosi consigli, un po’ di compiacimento e qualche vago alterco. Dall’altra parte la ragazza riceve la visita della sorella e le due diventano per il poeta l’immagine della bellezza da celebrare con dei versi destinati a concludere il suo libro, parole misteriose che raccontano di uomini dominati da un sistema che li espropria dei loro sogni e li trasforma in ombre sfocate di ciò che vorrebbero essere…I segni del film scolorano nella vaghezza dolce di una parabola smaterializzata: la parole detta/scritta, il verbo dell’esistere, è ancora una volta in campo, incarnato nella figura che fa da perno del piccolo universo allestito dal regista. Come nel precedente Grass, anche in Hotel by the River non c’è matrice realistica a definire lo svolgersi dei drammi, tutto discende da un sentimento che si articola nelle sue pulsioni esistenziali. L’incedere è distratto, il valore simbolico degli elementi è quasi materia di discussione. Senza soluzione di continuità, il rapporto tra spazio e tempo si spinge in un altrove esistenziale che termina la vita, ma lascia risuonare il valore dell’esistenza: come quasi ogni film che sta nei pressi di un fiume, Hotel by the River parla di vita e soprattutto di morte, declina un addio, ma non insiste sul concetto del congedo, preferendo manifestare piuttosto un sentimento dolce di conciliazione. Cosa tutto sommato rara per un autore che il più delle volte ha narrato nel suo cinema i confini più stridenti delle relazioni.