Un progressivo slittamento nel surreale e nel grottesco, che avanza nelle inquadrature, che rimane sottotraccia nella lunga prima parte di osservazione della natura (il paesaggio roccioso, montagnoso, il fiume, il cielo) e dei suoi abitanti (gli uccelli, in particolare, ma anche le capre), per poi esplodere dal momento in cui il protagonista si perde nella foresta, dopo un incidente con la canoa, inanellando una serie di incontri sorprendenti nel corso di una deriva che sembra non avere via d’uscita. Con O ornitólogo (in concorso al Festival di Locarno, premiato per la migliore regia), al suo quinto lungometraggio, il cineasta portoghese João Pedro Rodrigues fa entrare nel suo cinema della metamorfosi, dove i personaggi sono colti in uno stato di trasformazione delle loro identità, la storia e la figura di Sant’Antonio (già evocata dal regista nel cortometraggio del 2012 Manhã de Santo António), che la leggenda dice possedesse il dono dell’ubiquità. Un Sant’Antonio moderno, quello di Rodrigues, ma descritto rimanendo fedele alle tappe fondamentali della sua vita, anche se re-interpretate talvolta ricorrendo all’immaginazione meno prevedibile. Il Sant’Antonio di Rodrigues è un ornitologo omosessuale e malato, si chiama Fernando (come il nobile portoghese prima di farsi frate), entra sempre più in collisione con la propria identità (due ragazze cinesi in viaggio verso Santiago de Compostela lo salvano dal naufragio, poi lo legano, tentano di castrarlo e gli cancellano, strappano, gli occhi dalla carta d’identità), delle amazzoni riconoscono in lui Antonio già prima dell’approdo alla sua nuova esistenza (e quando essa si manifesta, Paul Hamy, l’attore che interpreta Fernando, esce di scena e lo stesso João Pedro Rodrigues prende il suo posto nel ruolo del frate).
Tutto è doppio, e ubiquo, in O ornitólogo. Il protagonista solitario è, fin troppo chiaramente, il sosia del regista, e non a caso la sua osservazione degli uccelli, alla ricerca delle cicogne nere in pericolo, è spesso filtrata dalle lenti del binocolo da lui usato – e che in alcune inquadrature diventa una sorta di doppia iride, di sguardo soggettivo e muto. Il giovane capraio sordomuto Jesus, corpo pasoliniano incontrato su una spiaggia, amato brevemente da Fernando e da lui ucciso, si re-incarnerà nel ragazzo di nome Tomé, che a sua volta porrà termine alla prima vita di Fernando. Il surreale e il grottesco avanzano in capitoli disseminati di gesti, parole, simboli religiosi: la preghiera delle due cinesi; il nome di Jesus; una croce in cima a una montagna; l’ala ferita di un piccione; le ali di statue rovinate dall’incuria. Rodrigues non è cineasta leggero, nel senso (del piacere) di accumulare, di portare le immagini alla saturazione inventando anche prospettive ben azzardate come quelle dall’alto nella foresta riconducibili, o almeno in parte, al piccione guarito da Fernando/Antonio. Si tratta di un labirinto della visione dal tempo sospeso e inattuale, denso anche di riferimenti filmici (da Pasolini a Alain Guiraudie, ma Rodrigues nelle note di regia parla del suo interesse per La morte corre sul fiume di Charles Laughton), che l’autore de Il fantasma abbandona improvvisamente, con alta dose di ironia. A quella foresta senza nome, popolata anche da animali immobili, riti tribali e tunnel, al buio e ai misteri, Rodrigues accosta, nell’ultima scena, l’ingresso stradale di Padova (che storicamente il frate raggiunse e dove, nel 1231, morì). Antonio e Tomé, di spalle, mano nella mano, camminano felici, mentre le due cinesi in motorino li salutano. Si produce così un ulteriore scarto spaziale e temporale. Un ritorno al presente e alle porte di una città con una coppia senza età che incarna il desiderio e la sua realizzazione.