Se ti vedo, muori. Mi risuona nella testa questa frase. Penso al passaggio fluido tra il set e la caccia di Cacciatore bianco, cuore nero, alla sovrapposizione del guardare e del vedere. Penso alla macchina da presa che vede e registra e al mirino di un fucile che guarda/cerca e spara. Analogia fin troppo abusata, eppure imprescindibile. “Se ti vedo, muori”, sembra pensare il cecchino Chris Kyle. Il migliore di stanza in Iraq, in questa guerra diffusa che non si combatte tra eserciti ma dentro le case, nelle cantine, sulle terrazze dei palazzi. Chris, soprannominato “la leggenda” per l’infallibilità della mira e il record di nemici uccisi, è impegnato in una guerra di lontananza, dominata da panoramiche dall’alto, blow-up di scene invisibili ad occhio nudo. Appunto, come l’occhio del cinema, come la corsa sulle terrazze dell’agente Callaghan… Si osserva da lontano. Un uomo si affaccia sulla strada. Scompare e dalla porta escono una donna e un bambino. Tra le stanze e le scale di quella casa si è già consumato un film invisibile, alluso. Uno dei tanti che intessono la trama stratificata di American Sniper di Clint Eastwood. Di nuovo in guerra, il cavaliere senza nome porta il suo sguardo nel paesaggio ruvido del Medio Oriente ed è sguardo che si sdoppia su due fronti. Il campo e il controcampo che era disgiunto in Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima. Solo che non ci sono né lettere né bandiere, ma un patriottismo asserito e servito con gesti meccanici e decisioni difficili da prendere, e sfrangiato più volte, che si sgretola ai bordi di enunciazioni appena accennate. In questo film essenziale, affilato e crudele, Eastwood si astiene da ogni apologia. Anzi, si tiene a distanza, indietreggia come il giocatore di rugby in Invictus per andare avanti e avanzare nel gioco. In questo senso si può definire American Sniper un film di strategia perché quello che si vuole fare è destrutturare la figura dell’eroe e svuotare dall’interno la tensione mitica. Non è eroismo uccidere. Solo un ordine da eseguire per proteggere il “paese più bello del mondo” (e infatti Chris si immobilizza quando un giovane che ha salvato lo dipinge come un eroe). In questo film, che sembra l’epilogo di una riflessione sulla guerra che arriva da lontano, non si costruisce un’immagine da comunicare al mondo con le bandiere, ma si procede solo per dettagli e contrapposizioni talvolta ingannevoli. Certo, il punto di vista è quello dell’eroe texano che voleva fare il cowboy, ma quest’immagine si stempera nella figura del cecchino siriano, agile, velocissimo e astuto. Dissolvenza incrociata dei due fronti. Si potrebbe azzardare un parallelismo. E chissà se questo campione olimpico di tiro a segno ha avuto anche lui un padre che gli ha insegnato a proteggere i suoi cari e ad essere un cane da pastore, piuttosto che un lupo o un agnello. La battaglia con il suo alter-ego, non a caso, non finisce. Sembra svanire nella negazione dello sguardo. Nella tempesta di sabbia che acceca. Niente confini davanti agli occhi. Niente uomini/donne/bambini da “filmare”. Eastwood racconta di una guerra che non finisce sul campo di battaglia. Che prosegue nella vita civile insinuandosi in ogni pensiero, nei sogni e nelle visioni di Chris. In giardino come nel salotto di casa, davanti al televisore spento, e nei sogni di ogni notte, come quelli del reduce Walt Kowalski in Gran Torino, tormentato dal pensiero del ragazzo ucciso senza motivo in Corea. Un film sull’aspetto più intimo della guerra (e quindi non un film di guerra in senso stretto), che ci racconta come essa possa essere ovunque, anzi, dilaga e si propaga nei territori che consideriamo pacifici: i pensieri, le ossessioni, persino i gesti compiuti con apparente leggerezza. La guerra non è solo nei nomi dei caduti, non più nella “retorica” delle commemorazioni e neppure nel nazionalismo ideologico. La guerra, questa guerra, ci resta appiccicata come un’idea da cui è impossibile liberarsi, perché è una scommessa sbagliata, persa fin dal primo passo, non importa da chi sia stato compiuto.