Se La La Land aveva suscitato il doveroso interrogativo circa la capacità del musical di andare al di là delle forme più classiche, il nuovo lungometraggio dei Manetti Bros. sembra rispondere al quesito con l’ibridazione dei linguaggi: un film classico quanto più non si può nel riprendere i modelli della sceneggiata napoletana, ma (post)modernissimo nel farne territorio di sperimentazione per i cascami generati dall’immaginario proprio e altrui. In tal modo, la Napoli di Ammore e malavita discende esattamente da quella del precedente Song’e Napule e pure dalla Bologna televisiva de L’ispettore Coliandro, nella sua ricerca stilistica che ibrida il piacere della messinscena d’azione alla svirgolatura ironica. Il tutto, però, mantenendo sempre il controllo, anche quando poi si imbarca nel genere più ambizioso, il musical appunto. La melodia intreccia generi ed epoche, tiene la classica musicalità della sceneggiata in primo piano, ma cerca di accordare un tono a ogni personaggio, intervallando anche rock, rap, citazioni da Flashdance e sonorità moderne: il Maestro Pino Mauro e Raiz, insomma, ma anche inattese incursioni nel ballo hollywoodiano – i registi dichiarano di aver tenuto Grease come modello di riferimento – mentre i testi non si limitano a commentare, ma spesso accompagnano e guidano l’azione. A ritroso il film si confronta poi con la direttrice che dalla neo-sceneggiata anni Settanta alla Alfonso Brescia passa per l’action hongkonghese alla John Woo del decennio successivo, in un gioco di rimandi e reinnesti mai stucchevole perché sempre orientato a una ricerca molto precisa. Ecco dunque un’epica di amicizie tradite sullo sfondo di una messinscena rappresentata dalla finta morte di un boss ormai stanco e che sogna il ritiro.
Peccato che a vederlo ancora vivo ci sia una ignara infermiera, che il caso vuole sia anche l’amore perduto del tirapiedi Ciro. Il quale inevitabilmente la salva e tradisce, innescando una guerra contro gli ex compagni che devono cancellare ogni prova. La posta in gioco, va da sé, è l’essenza stessa dei legami, quell’amore vero tante volte celebrato in musica e che non può fare rima con il senso dell’onore negato ai traditori. Una tragedia perfetta, che il rimando musicale celebra e allo stesso tempo demistifica, così come avviene con la rappresentazione stessa della napoletanità: i Manetti, infatti, omaggiano la tradizione, che è fatta di calore, musica e amore, ma anche delle derive nere che arrivano fino a Gomorra in tutte le sue declinazioni librarie e cine-televisive, e nel far questo riflettono e smontano gli schemi. La musica diventa così il grimaldello ideale per un gioco sugli stereotipi, a seconda dei casi assecondato o rivoltato come un calzino, con la stessa simpatica sfacciataggine con cui si affida il ruolo napoletanissimo della donna del boss alla romanissima (e insolitamente convincente) Claudia Gerini. Il tutto rientra pienamente in un lavoro sui codici di genere che i due registi-fratelli portano avanti da vent’anni, in cui il lavoro sulla riconoscibilità delle forme si accompagna alla possibilità di inserire nel corpo di narrazioni altrimenti classiche, le aperture verso altri linguaggi (come i fumetti in Zora la vampira). L’idea della messinscena alla base del plot è quindi perfetta per una ricognizione che giochi con le aspettative del pubblico, ma che porti anche a cercare davvero l’essenza di legami per definizione quanto mai cangianti fra le spire del noir, e che necessitano della necessaria prova della verità per resistere agli stimoli che possono lacerarli.