Primo Marvel-Movie del dopo Infinity War (ma ambientato cronologicamente prima), Ant-Man & the Wasp sin dal titolo ribadisce un dualismo fra i protagonisti che si riflette in quello tra le realtà poste in essere: il nostro mondo e quello quantistico, a loro volta scomposti e “sdoppiati” a seconda che la dimensione dei personaggi sia normale o ridotta (o persino ingigantita). Così come duale è la paternità di questa micro-saga all’interno dell’universo Marvel. Sappiamo infatti che il primo Ant-Man lo doveva dirigere Edgar Wright: un lavoro andato avanti per anni insieme all’amico e collega Joe Cornish (quello del delizioso Attack the Block) e poi culminato in un promo-reel, una sceneggiatura e una serie di storyboard. Wright è stato poi messo alla porta per il solito refrain delle divergenze creative con gli Studios che mal digeriscono i registi con personalità – mentre scriviamo la nuova vittima è Danny Boyle per la saga dei Bond – e a subentrare è arrivato Peyton Reed, che in curriculum aveva persino una pellicola intitolata Yes Man, quando si dice l’ironia del destino. Così, mentre Wright gli chiedeva di “non usare i miei storyboard”, Reed, da bravo esecutore delle volontà marveliane faceva evidentemente il contrario, considerato quanto Ant-Man riflettesse in pieno quanto visto nel promo reel e trasudasse “wrightismi” da tutti i pori, nell’uso inventivo del montaggio e in un ritmo spedito e fresco.
Con l’arrivo del sequel, però, le cose si complicano: stavolta non c’è il precedente a cui attingere, e forse per esorcizzare il destino, la storia inscena fra le altre cose anche una serie di battibecchi tra l’ansia da primo della classe del dottor Pym e gli scienziati rivali che lo accusano di non fare squadra, di sfruttare il lavoro altrui, screditando chi non ritiene alla sua altezza. Sembra quasi la cronaca in diretta del conflitto tra autorialità e industria che sempre avvolge questi film marveliani. La storia procede comunque scorrevole, forte del lavoro di ben sei sceneggiatori, ma quanto di buono si era visto nel capostipite sta ormai insieme a fatica, non sorretto da una regia distratta, poco pratica nel valorizzare le scene e così poco ispirata da non brillare nemmeno quando riprende gli stilemi che avevano fatto la fortuna del precedente capitolo. Sembra la storia del compagno di banco bravo a copiare e che in virtù della scaltrezza portava a casa il risultato fra i plausi dei professori, salvo poi restare scoperto quando accanto non aveva quello più bravo cui attingere. In questo modo il povero Reed sembra più vicino al Sam di Laurence Fishburne, scienziato rispettabile ma eterno secondo davanti al primo della classe Pym, volenteroso ma a conti fatti non incidente sugli eventi della storia. Peccato perché il cast è in grande spolvero, ma quando non si riesce a valorizzare nemmeno il talento di Hannah John-Kamen, emersa grazie allo Spielberg di Ready Player One che le aveva cucito addosso un memorabile ritratto di “cattiva”, ancora di più risalta la differenza tra l’allievo scaltro ma senza talento, e gli autentici maestri. Il “bruciante” colpo di scena finale che ricolloca gli eventi nella continuity del già citato Infinity War appare quindi come una resa: forse meglio finirla qui, in barba agli incassi che sicuramente daranno ancora una volta ragione al progetto.