Un film di fantascienza come lo avrebbe inteso Zemeckis, con una dose massiccia di racconto privato, meraviglia verso l’universo intimo dei personaggi e silenzio. Il nuovo film di Denis Villeneuve Arrival, tratto dal racconto breve Story of Your Life di Ted Chiang, è tutte queste cose insieme, con quell’idea di ingenuità in più che lo rende fresco e sorprendente in ogni momento. Quando sul nostro Pianeta sbarcano all’improvviso dodici navicelle spaziali, i governi dei vari paesi intervengono in modo massiccio e un po’ goffo (avete presente E.T. o Starman) precipitandosi alla ricerca di una risposta circa la natura di questi extraterrestri e le ragioni della loro visita. Niente di nuovo in questa premessa, che non dimentica la tensione preparatoria di Spielberg e promette avventure immaginifiche e incontri ravvicinati del terzo tipo, salvo poi restare fedele al principio di partenza e legato all’idea di marginalità del genere, per prediligere, invece, processi creativi rarefatti e minimali.
Un kolossal in controtendenza, dunque, dove sono i meccanismi del linguaggio e della comunicazione al centro di tutto. Come fare a parlare con questi alieni giunti da chissà dove?Come capire quali siano le loro intenzioni? Ci dovrà riuscire Louise Banks, linguista di una Università del nordest degli Stati Uniti che crede nello scambio e nella pace di una comunicazione reale e leale. Ancora una volta viene in mente Spielberg quando in Amistad aveva affidato tutta l’intensità del racconto al lungo dialogo tra avvocato e schiavi, nel tentativo di portare sul piano del linguaggio questioni di natura prettamente fisica. Qui si cita l’ipotesi di Sapir-Whorf, secondo la quale lo sviluppo cognitivo di ciascun essere umano è influenzato dalla lingua che parla.Perché quello che fa Villeneuve in questo film è di sottrarre fisicità ad un argomento che abitualmente è stato affrontato sul piano dell’immediato riscontro. Il corpo dell’alieno non è più l’oggetto dell’interesse, in quanto più importante è infrangere le barriere e capire, conoscere, approfondire le ragioni e le spinte teoriche, scientifiche ed umanistiche. Dare forma visiva ai pensieri, ognuno dalla sua parte del vetro, senza scalfire lo spazio dell’altro, eppure fondendosi in un comune intento di salvezza. Ci si muove su superfici impalpabili, set leggeri e contesti inscritti nella assoluta lievità. Così, grazie a continue sessioni e confronti, i protagonisti “terrestri” mettono insieme un alfabeto miracoloso, una danza di segno e gesti che disegnano letteralmente il rapporto con l’altro, per fare quel passo in avanti necessario e ottimista. Ma, si diceva, il merito di questo film sta nell’aver svicolato i luoghi comuni linguistici, formali e tematici, e nell’essere riuscito ad esprimersi sempre su un doppio fronte. Il particolare e l’universale, il bene e il male, il presente e la miriade di tempi che ci collegano al futuro e al passato. Il viaggio che Louise riuscirà a compiere, infatti, non è diverso da quello di Ellie Arroway in Contact. Entrambe arriveranno alla scoperta più importante della loro vita interpretando il proprio universo interiore, grazie alla facoltà di vedere oltre se stesse ed entrare in comunicazione con la pura essenza di sé. Il segreto sarà quello di accettare le profezie che sembrano giungere dallo spazio e aprire la strada allo scambio perfetto: gli alieni mostrano a noi oggi la strada della sopravvivenza, per poter aiutare loro tra milioni di anni. Salvare per essere salvati. Impossibile non pensare alle urgenze e agli equivoci del nostro tempo.