Sostanzialmente un mystery play sul corpo dolente della rivoluzione. A Lullaby to the Sorrowful Mystery di Lav Diaz (in Concorso alla Berlinale 66) è, in qualche modo, il film definitivo del cinema filippino contemporaneo, quello che scrive sino in fondo il vissuto estetico e politico del filmare in cui si ritrovano autori che vanno dal padre ideale Kidlat Tahimik allo stesso Diaz, passando per Raya Martin, John Torres, Khvan De La Cruz. Infinito nelle sue otto ore di durata, eppure perfettamente concluso e resistente nella sua forma epica china verso il basso dell’umanità, A Lullaby to the Sorrowful Mystery è il canto di laica sacralità della lotta per la libertà del popolo filippino. Un canto inciso in un dramma lirico, che si incarna nella rappresentazione fuori scena – perché in realtà negata allo sguardo e alla coscienza – della rivoluzione del popolo tagalog contro il dominio spagnolo. Tutto è scritto sul corpo sacro assente di Andrés Bonifacio, padre del movimento Katipunan che diede vita alla rivoluzione contro il dominio ispanico, figura fondatrice dell’identità tagalog, che Lav Diaz utilizza come ombra tragica di questo suo dolente canto sulla sconfitta della rivoluzione: il film è composto nel segno della perdita, trovato nella disperazione di un popolo che vede fallire le speranze di libertà nel tradimento nato in seno al movimento stesso di liberazione, nel sovrapporsi di personalità, fazioni, linee di fuga ideologiche fomentate dagli stessi spagnoli. Lav Diaz fa partire tutto dall’annuncio dell’esecuzione per mano degli spagnoli di José Rizal, medico, scrittore e – per volere di Bonifacio, che vedeva nei suoi versi la matrice spirituale della rivolta del suo popolo – primo presidente del Katipunan. Il vuoto spirituale che ne risulta si proietta in uno scenario che innesta la storia reale della rivoluzione filippina nell’ordito intriso di melodramma e istanze identitarie dei testi di Rizal, evocando soprattutto i personaggi di uno dei suoi libri fondamentali, El Filubusterismo, chiamati a raccolta come spettri che attraversano la foresta in fuga dal proprio destino assieme al popolo filippino, in un susseguirsi di drammi, tradimenti e smarrimenti, che costituiscono la trama parallela sulla quale Diaz costruisce il suo film.
Lav Diaz elabora dunque un doppio registro per un film che nella prima parte sembra costruito su quadri pittorici in cui le trame di dominio del governatore spagnolo si intrecciano con le istanze di ribellione dei rivoluzionari, mentre nella seconda parte tutto diventa un precipitare di eventi tragici nella figura retorica di una fuga che è scritta addosso al melodramma di figure che sembrano quasi dei bassorilievi incisi sul verdeggiare ad un tempo florido e melmoso di quella foresta che è storicamente il rifugio e il luogo della disperazione del popolo tagalog, il luogo in cui hanno patito l’esilio in casa nel susseguirsi delle dominazioni spagnole, giapponesi e americane. Lav Diaz segue dunque da una parte il pellegrinaggio disperato di Gregoria de Jesus che, assieme ad altre “maddalene”, va alla ricerca del corpo di Adrés Bonifacio, dopo il suo rapimento e la sua esecuzione da parte dei ribelli della guardia nazionale comandata da Emilio Aguinaldo; dall’altra inscena la fuga disperata di Simoun, ovvero Crisostomo Ibarra, mortalmente ferito per il tradimento della causa da lui perpetrato al fine di indurre il popolo alla ribellione, accompagnato dal suo amico, il poeta e studente Isagami, entrambe ombre recitanti in libera uscita da uno dei più amati romanzi di Rizal, El Filibusterismo. Il film diventa dunque il melodramma di un popolo disperso in una selva oscura che ingloba in una scena unica figure storiche e reali e emblemi di un’identità letteraria in cui si inscrive il lirismo rivoluzionario che trasuda dal cinema tagalog. Nella prima metà è tutto un susseguirsi di quadri drammatici in cui le varie figure in campo perseguono i loro scopi e seminano la tragedia sulla terra e sul sangue del popolo filippino: un intreccio quasi shakespeariano di tradimenti, poteri, manipolazioni che vedono il governatore spagnolo tramare con i filippini stessi, pronti a tradire la loro parte in un irrazionale impeto ideologico. Poi Lav Diaz ci immette in un flusso di coscienza e di storia che è un meraviglioso concentrato di melodramma popolare e di lirismo filmico al quale ci si concede con illuminante libertà. A Lullaby to the Sorrowful Mystery è il punto di arrivo di un cinema che come pochi, oggi, è davvero capace di stare in un impeto identitario vicino alla realtà del popolo, proprio perché si astrae in una dimensione di fusione empatica con le radici ideali da cui tutto trae origine.