La notte dell’8 dicembre 2010 un incendio nel carcere di San Miguel a Santiago del Cile provocò la morte di 81 persone, 16 feriti e più di 200 evacuati. Dieci anni dopo, quando la regista cilena Francina Carbonell decide di fare un film su quella tragedia, nessun responsabile è stato ancora individuato. Ci furono ritardi, mancanza di coordinamento, disinteresse iniziale di rappresentanti dell’istituzione penitenziaria, un luogo di reclusione che deteneva un numero ben maggiore di persone di quelle che avrebbe dovuto e potuto contenere. Sovraffollamento e condizioni di vita disastrose. Per Carbonell parlare di quanto accadde divenne fondamentale nel momento in cui il materiale audiovisivo che documentava i fatti di quella notte fu reso accessibile. Voleva, l’autrice, non far calare il silenzio. Il risultato è El cielo está rojo (The Sky Is Red, presentato alla Settimana della Critica della Berlinale), sua opera d’esordio che affronta quella pagina buia della recente storia cilena con uno sguardo teorico lasciando fuori campo ogni convenzione documentaria per fare posto invece a una stratificata riflessione sulle immagini, sul senso del vedere e, attraverso essa, rendere ancora più efficace il suo atto di denuncia, il gesto politico del film.
El cielo está rojo aggrega una moltitudine di fonti, le mette in relazione e in cortocircuito, crea attriti e interferenze visive e sonore, si immerge nella bassa definizione, la scruta e interroga per far affiorare da essa l’orrore di un massacro. Il film accoglie infatti gli archivi che hanno costituito le prove usate durante il processo riguardante quel caso: videocamere di sorveglianza, fotografie, immagini dell’interno e dell’esterno della prigione, ricostruzione di scene per tentare di risalire all’origine dell’incendio, chiamate telefoniche, scritte riportanti messaggi inviati dai cellulari, disegni con sagome umane e linee di letti e pavimenti per ricreare situazioni… Carbonell lavora su campi e controcampi in maniera originale. Sono sconvolgenti le immagini dei letti incendiati, del rosso che divampa e occupa l’inquadratura, e quelle delle fotografie che mostrano quei letti inceneriti.
Sono indelebili, e inserite varie volte, quelle con il fumo denso che si alza a coprire il cielo, dell’edificio filmato da lontano e avvolto da quelle nuvole grigie. Mentre gli zoom “dentro” le immagini delle videocamere di sicurezza non portano tanto informazioni più dettagliate ma si fanno magma indistinto, immagine negata, “mangiata” dai pixel, e quindi materiale semantico da ri-nominare (come sta facendo in questi anni, e con attitudine ancor più radicale, il palestinese Kamal Aljafari con i suoi film di scavo nella memoria sia di un popolo sia del cinema che invitano a vedere con occhi nuovi), in contrasto/in sovrapposizione con la nitidezza con la quale vengono inquadrate proprio le videocamere poste in luoghi cruciali. El cielo está rojo diventa così un film-saggio nel ri-pensare un atroce fatto di cronaca (e, come sottolinea Carbonell, “la precarietà del nostro sistema carcerario attuale”), mette in collisione immagini e parole (le urla di chi non può scappare, alcune frasi del processo, la concitazione vocale dentro e fuori il carcere), non si stacca mai dal suo doloroso pre-testo, lo incalza e gli sta addosso, fin dalla scena che apre questo esemplare lavoro d’investigazione, ovvero la soggettiva in un corridoio della prigione sovraffollato di persone e cose sparse e appese ovunque. Si entra immediatamente in quell’edificio dell’orrore e non se ne esce più.