“Dopo quello che mi è accaduto, non mi resta che dichiarare la mia totale incompatibilità con la DC. Mi dimetto da tutte le cariche… mi dimetto dalla DC”. A parlare è Aldo Moro (Fabrizio Gifuni), a maggio 1978, mentre nel corridoio di un ospedale una suora presidia la sua stanza. Flebo al braccio, si riprende dai 55 giorni di rapimento in cui ha scritto molto, soprattutto cose che riguardano i tre colleghi di partito che si sono precipitati da lui: il ministro dell’Interno Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), il presidente del Consiglio Giulio Andreotti (Fabrizio Contri) e il segretario Benigno Zaccagnini (Gigio Alberti). Moro è vivo e vuole vivere. Semmai è il Paese, lì fuori, che non sta tanto bene, dopo quasi due mesi di angoscia, panico e paranoia da caccia all’uomo, rischio concreto del ripristino della pena di morte. Di estenuante dibattito tra linea della fermezza e la trattativa per la liberazione che occupa i media e invade il sonno. Nella stessa scena iniziale di Esterno notte, con voce provata ma decisa, il presidente della DC ringrazia i carcerieri per “la salvezza della vita e la restituzione della libertà”.
È la provocazione di un revenant, di chi è ancora in cerca di degna sepoltura. Un guizzo, una ribellione fantastica al corso della Storia. Principio di vita che prevale sull’istinto di uccidere. Anche nel finale di Buongiorno, notte il Moro interpretato da Roberto Herlitzka (soprav)viveva. Fortunatamente per noi spettatori, Marco Bellocchio ha ripreso il filo di quel film spiazzante, ripartendo dallo sguardo di Maya Sansa. Per sviluppare e ampliare l’osservazione e i punti di vista su quella “notte della Repubblica” scandagliata dall’inchiesta di Sergio Zavoli. Notte metaforica e letterale. Anzi, una costellazione di notti insonni, oltre quelle del rapito: di Cossiga, primo responsabile della sicurezza di Moro e ossessionato dall’immagine del proprio padre politico, che gli si manifesta come un fantasma, causa della sua futura vitiligine. Delle loro mogli, sole, altrettanto sacrificate, nell’economia del tempo degli uomini di Stato. Dei terroristi in clandestinità, che con la paura nel cuore si preparano all’azione o la esorcizzano facendo l’amore. Degli uomini delle scorte, che ingannano le attese parlando di calcio mentre i capi di partito negoziano la lista dei ministri. Dei bambini, quelli che con la loro presenza tranquillizzano gli adulti e quelli che si risvegliano trovando pistole nei cassetti.
Esterno notte rimette in scena il sequestro di Moro (e il suo insensato epilogo) per rappresentarlo come tragedia tanto privata quanto pubblica. Spartiacque non solo della storia politica nazionale ma anche di quella psichica degli italiani, qui amplificata dal dispositivo della centrale di ascolto voluto da Cossiga. Registra e restituisce con precisa immediatezza l’attacco diretto e inaspettato alle istituzioni, la tensione sociale, la condanna a morte emessa e percepibile ben prima del sequestro, mentre a Torino si sta celebrando il processo che vede imputati, tra gli altri, Curcio e Franceschini. La sorpresa e lo sgomento per l’azione delle Brigate rosse – quell’accecamento della ragione, l’incapacità di ascoltare l’altro, che ha dato l’innesco anche all’autobiografico Marx può aspettare – camminano di pari passo con il motivo del tradimento, qui strettamente politico, molto caro al regista: il mancato coraggio dei compagni di partito, prontamente intuito dalla moglie di Moro, Eleonora “Nora” Chiavarelli (Margherita Buy), e il tradimento – o fraintendimento – della causa rivoluzionaria, che porta i brigatisti a emettere la sentenza di esecuzione. Si respira l’odio per il partito che Moro aveva contribuito a fondare, e che in quel momento storico delicatissimo resiste al cambiamento, per quanto prudente. Un odio che rimbomba dai cori delle manifestazioni, dalle aule di università, dalle scritte sui muri.
Con i suoi co-sceneggiatori – Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino – e la montatrice Francesca Calvelli, Marco Bellocchio disegna un’architettura prismatica, priva di vezzi spettacolari e scorciatoie mnemoniche da serialità standard. Apre a una pluralità di voci, in cerca dell’“esterno”, che mancava nel film precedente. Vuole completare un quadro che gli sta a cuore, prima di passare a una nuova regia (La conversione, dalla storia narrata in Prigioniero del Papa Re di David Kertzer). Grazie a un’ossessione condivisa, individua in Fabrizio Gifuni il corpo perfetto per incarnare uno scandalo, una rimozione: il corpo di Cristo. La lettura in chiave cristica di Moro, padre di famiglia severo e tenero, frugale e oculato ai limiti dell’ossessione, è anticipata dalla potente immagine del manifesto di Federico Mauro (agenzia Vertigo): il simbolo dei democratici cristiani scomposto e riassemblato in una croce di rose rosso fiammante, incorniciata da uno scudo di spine. Anche la “R”, nel carattere tipico di quei ciclostilati, nei titoli di testa, sembra richiamare il “rex”, il Cristo Re di I.N.R.I., indicare Moro non come eroe da canonizzare, ma come padre rinnegato, primus tra i non pares, intelligenza sacrificata sull’altare del potere. E, beffa ulteriore, anche come dichiarato pazzo, il corpo alieno, respinto e espulso da una compagine politica che si dice normodotata. Il capro espiatorio di una classe dirigente avida e pavida.
Il presidente senza auto blindata. Il fedele che a messa stringe la mano a una dei suoi peggiori nemici. Che riceve la comunione dal Papa, amico e suo consigliere. È Paolo VI (Toni Servillo), in uno dei tanti, magnifici slanci onirici del film, a immaginare Moro che trascina la croce su una grottesca via crucis, mentre il gruppo dei “suoi” mormora un’Ave Maria zittita dai tromboni del Dies Irae. Gli stessi colleghi in prima fila ai funerali di Stato ai quali la famiglia negherà il corpo. Forse non è casuale che in un altro punto la radio di casa Moro mandi la notizia dell’allora imminente (oggi molto dimenticato) Cristo si è fermato a Eboli. Di certo quel gruppo in timida preghiera rimanda ai democristiani patologici e rapaci di Todo modo. Soprattutto, rende un opportuno riconoscimento a “M. il presidente” interpretato nel film di Petri da Gian Maria Volonté, ritornato a quel personaggio anche in Il caso Moro di Giuseppe Ferrara. Nella linea rigorosa di Volonté, già nei panni del politico in Romanzo di una strage di Marco Tullio Giordana e poi esegeta delle lettere di Moro a teatro con Con il vostro irridente silenzio, Gifuni è in un certo senso coautore del film, per aver già studiato e portato in scena le parole di quell’incandescente memoriale. Il regista ne esalta il talento nell’incipit sensazionale citato sopra e dopo averlo fatto protagonista dell’episodio iniziale stringe il fuoco sulle altre figure fondamentali della vicenda: il secondo episodio si concentra su Francesco Cossiga, il terzo su Papa Paolo VI e monsignor Curioni (Paolo Pierobon), il quarto su Adriana Faranda (Daniela Marra), Valerio Morucci (Gabriel Montesi) e leggermente a lato, Mario Moretti e Barbara Balzerani; il quinto su Nora. Per poi tornare circolarmente nel sesto al nascondiglio, alle ultime parole del rapito, a un rapido montaggio di fatti, tra cui le elezioni dei presidenti a venire: ciascuno tragga le proprie conclusioni. Proprio come nell’Italia del ’78 esisteva un “fine delle trasmissioni” della tv pubblica, uno spazio di riflessione di proprietà esclusiva della notte, la narrazione lascia a chi guarda un discreto margine di immedesimazione e il tempo necessario a comprendere e eventualmente collegare (o approfondire) personaggi e contesti, umore pubblico e sentimenti privati.
Proprio come nella fotografia contrastata di Francesco Di Giacomo e nel poliedrico score di Fabio Massimo Capogrosso, quello della tragedia in corso non è l’unico registro, nella vicenda del “grande mediatore” morto per mancanza di dialogo: c’è ampio spazio per il ridicolo, il paradossale, anche l’irriverente. Sinfonia di incubi e disagi psichici, Esterno notte con parsimonia utilizza anche il meta-cinema: Faranda intuisce che lo sbandamento mitomane dei compagni brigatisti assomiglia alla fascinazione per la morte da eroi che segue alla sparatoria di Il mucchio selvaggio; uno dei tanti presunti covi si rivela il set improvvisato di un film studentesco, che si appropria dei fatti nel loro svolgimento; fuori da un negozio di armi saccheggiato una locandina di Anima persa rilancia i motivi della pazzia e della reclusione, mentre il coevo, postfranchista Cría cuervos di Carlos Saura (da cui viene Porque te vas, brano che accompagna anche il trailer) ha nel titolo il tema dell’infedeltà (il proverbio “alleva corvi e ti caveranno gli occhi”). Vedere nella sua interezza e senza soluzione di continuità Esterno notte – diviso in sei episodi, per una durata totale di circa cinque ore e mezza, 330 minuti – è un’esperienza impressionante, quasi eccessiva da sostenere, per densità narrativa e intensità emotiva. Del tutto logica quindi la scelta di una doppia fruizione, sia cinematografica (i primi tre episodi sono in sala dal 18 maggio, gli altri dal 9 giugno) che televisiva, prevista per l’autunno.
È un’immersione in un vortice di eventi – a volte ricreati, altre ripresi dai telegiornali e dagli archivi di allora – e di invenzioni visive incisive, che si impongono sul resto (qui, sulla ricostruzione delle strategie o delle piste investigative): il sangue che emana dalla pressione di un cilicio; una catasta di mazzette su un tavolo del Vaticano; un tricolore che si attorciglia su se stesso al Viminale; il taglio di un finestrino di un’auto sulla piramide Cestia che replica una cover pinkfloydiana; una massa di cadaveri sognati, trascinati dalla corrente di un fiume color petrolio. Un impasto di realtà storica e immaginazione, cifra dell’autore, che si affila in direzioni impreviste, sempre più polisemiche e avvincenti. Una visione da cui si esce frastornati e grati, per la qualità altissima della messa in scena e del cast (oltre all’incantevole Gifuni, colpiscono per misura e concentrazione Buy e Russo Alesi) e per l’opera di memoria, sintesi e reinvenzione di regista e sceneggiatori, tra lucidità e pietas. E un po’ invidiosi per chi, senza per forza averlo vissuto, potrà accostarsi a quel trauma collettivo (anche) tramite un opus magnum come questo. Come scrisse Moro alla moglie Nora, a proposito della speranza di rivederla nell’aldilà, “se ci fosse luce, sarebbe bellissimo”.