Inghilterra, metà del XVI secolo. Re Enrico VIII è impegnato in una campagna militare in Francia, la sua ultima. In patria la sua sesta moglie – Catherine Parr, due volte vedova e sposata dall’esuberante sovrano nel 1543 – capisce che con l’assenza del Re i suoi ideali di riforma dello stato possono trovare terreno fertile. Frequenta, di nascosto da emissari e soldati della corte, Anne Askew, un’amica d’infanzia impegnata a predicare al popolo inglese il sogno una maggiore giustizia sociale, sospesa tra una religione per tutti accessibile – l’uso dell’inglese al posto del latino, simbolo della casta ecclesiastica – e la rivendicazione di diritti al tempo impensabili alle masse. Il ritorno di Enrico, sobillato da consiglieri preoccupati dalle visioni liberali di Catherine e disposti a tutto per salvaguardare il proprio privilegio, mette in pericolo non solo la voglia di rinnovamento ma la sua stessa vita. Enrico aveva giustiziato due delle sue precedenti mogli e delle altre si era liberato con crudeltà: per Catherine la questione non era più riformare il regno quanto sopravvivere. Alla storia passerà per essere l’unica sposa sopravvissuta al collerico e fumantino Enrico, per avere difeso le proprie idee gestendo con cautela il rapporto sempre più complicato con il sovrano. Karim Aïnouz, brasiliano di origini tunisine – trionfatore a Un certain regard 2019 con il magnifico La vita invisibile di Eurídice Guismão – ambienta il suo primo film in lingua inglese al centro di un secolo caldissimo, modellando il personaggio di Catherine Parr secondo canoni moderni, plasmando il ritratto di una riformista indefessa, di una protoeroina capace di sfidare le leggi della Corona per seguire i propri ideali.
Alicia Vikander impersona Catherine donandole una grazia placida che rafforza i suoi princìpi, lavorando di voce e (pochi) movimenti. Il suo lavoro distillato contrasta con la sgraziata violenza del sovrano (Jude Law) che sembra emanare un aroma malato, un senso quasi funereo di sopraffazione: la gamba devastata dal diabete e dalla gotta, una seduttività ostentatamente violenta e abusiva, un gusto per l’eccesso che raddoppia la gelosia paranoica e l’ossessione feroce per controllo e potere. Firebrand – letteralmente “tizzone” ma metaforicamente “testa calda” – è la definizione perfetta per Catherine che, nonostante la consapevolezza dei rischi in gioco, cerca di muoversi progressivamente in un mondo maschile che vorrebbe seppellirla assieme alle proprie idee, cercando di espellerla come un fattore estraneo dal corpo malato del potere. La corte reale reagisce come sa, con l’esercizio della forza (e della continua minaccia) e il tarlo del dubbio, pronta a schiacciare una visione del mondo più moderna, soprattutto se avvertita nella testa di una donna.
Sullo sfondo vediamo crescere, educata dalla brillantezza della matrigna, la giovane Elisabetta – figlia di Anna Bolena, moglie amata e decapitata dal Re – che sarà presto destinata a riscrivere le regole, in quanto donna, dell’esercizio del potere della dinastia britannica. Aïnouz tentenna tra un gusto smaccatamente mélo e l’accuratezza asettica della ricostruzione; si prende licenze storiche (accentuando il ruolo simbolico della protagonista) senza però riuscire a costruire un’epica compiuta, un racconto davvero caldo come il fuoco. Il risultato è un ibrido, capace di appoggiarsi più sul carisma degli interpreti che sulla forza della messa in scena, nonostante la morbosa fotografia – davvero regale – di Hélène Louvart. La modernità di Catherine è più dichiarata che realmente sentita, la sua ribellione più suggerita che davvero elaborata. Firebrand (in concorso a Cannes76) accende micce, provoca scintille – sociali, politiche, di genere – con eleganza, ma senza riuscire davvero ad appiccare un incendio.