Anora, detta Ani, vive a Brighton Beach, Brooklyn – la “Little Odessa” del film d’esordio di James Gray – e lavora come spogliarellista in un locale di Manhattan. La clientela del posto è composta principalmente da uomini di mezza età, più o meno laidi, sospesi tra trasgressione e paternalismo – «i tuoi genitori sanno che lavori in un posto del genere?» ha l’ardire di chiedere uno di loro. «E la tua famiglia sa che frequenti un posto del genere?», gli risponde secca una collega di Ani – mentre le ragazze affrontano con vitalità e autodeterminazione quello che considerano un lavoro come un altro. Una sera arriva nel club un cliente speciale, Vanya, un giovane russo con molti soldi da spendere. Il gestore chiama Ani, che parla un po’ di russo imparato dalla nonna, un’emigrata uzbeka che non ha mai imparato l’inglese, e le affida il rampollo. Il ragazzo è simpatico, così diverso dagli avventori abituali: Ani lo coccola e, alla fine della serata, gli lascia il suo numero di telefono. Vanya si fa vivo e presto i due iniziano a frequentarsi per rapide e intense (anche goffe) sessioni di sesso a pagamento. Ani vive questa relazione – basata su una transazione economica mutualmente condivisa – con spigliata naturalezza, quasi con allegria. Vanya sembra ingenuo e divertente, la sua casa è una reggia (si scoprirà presto che è figlio di un potente oligarca) e il sesso agile e veloce. Un giorno Vanya le propone un passo ulteriore: una settimana di compagnia, una sorta di fidanzamento a tempo. Lei accetta, in cambio di 15.000 dollari. Durante quella settimana sembra affacciarsi un indefinibile sentimento reciproco finché – una cosa tira l’altra – i due finiscono per sposarsi a Las Vegas: Ani in pochi giorni è passata dall’essere carne attrattiva in un locale per soli uomini a moglie imbrillantinata di un giovane miliardario.
A frapporsi tra la coppia e un potenziale lieto fine intervengono i genitori di Vanya, pronti a tutto per annullare quel matrimonio “immorale”, frutto dei colpi di testa dell’erede. E quando tre scagnozzi vengono mandati a risolvere il problema, l’ipotesi di un futuro rose e fiori va miseramente in pezzi. Con Anora, Sean Baker continua la sua ricognizione nel mondo dei sex workers: spogliarelliste, prostitute, attori e attrici hard erano già al centro dei precedenti Starlet, Tangerine, Un sogno chiamato Florida e Red Rocket. La costante dello sguardo di Baker è il rifiuto di ogni morbosità, l’assoluta mancanza di un tono giudicante, la normalizzazione – l’accettazione – troppo spesso raccontate come estreme e devianti, messe sotto il peso una lente deformante e moralista. Baker racconta, plasmandola a suo piacimento, una variante impazzita della fiaba di Cenerentola – cosa che in fondo aveva già fatto Garry Marshall in Pretty Woman – adeguando però racconto e personaggi a un liberissimo gusto indie. Anora è un ritratto di una giovane donna alla ricerca di un potenziale riscatto, da perseguire con la consapevolezza che l’uso del proprio corpo è solo uno dei tanti strumenti possibili, un lavoro normale, regolato da differenti regole d’ingaggio.
Ani è figlia del proprio tempo: sa quello che vuole e non si fa troppe domande sul come ottenerlo, ma quando le cose virano alla catastrofe sarà lei a mostrare coraggio e determinazione, donna forte in un panorama di uomini capaci solo di fuga e sopraffazione, vigliacchi e/o violenti, incapaci di una qualsiasi coerenza emotiva. Baker ha il merito di raccontare questa storia con un’adesione empatica ma mai enfatica, con uno stile diretto e compiuto, accettando di marginalizzare eccessive analisi sociologiche – che si manifestano tra le righe, mai calate dall’alto – per abbracciare lo spirito vitale della commedia sentimentale. Anora è alla ricerca di una sintesi tra apparenti antinomie – uomo/donna, ricco/povero, americano/russo, sesso/denaro – e lo fa con una leggerezza di tocco che non appesantisce il racconto, anzi lo anima. La forza nel film risiede proprio nella caratterizzazione emotiva della sua protagonista (complessa e stratificata anche grazie all’interpretazione di una magnifica Mikey Madison, già membro della Manson Family in C’era una volta a… Hollywood di Quentin Tarantino) che ci permette di sentirla viva e non appesantita dall’eventuale portato simbolico del suo ruolo. Certo, a volte Anora (Palma d’oro a Cannes77) indugia e si compiace (non tutti i 139 minuti appaiono necessari), ma il brio e la vitalità che ostenta, la libertà stilistica e tematica che abbraccia, risultano preziosi nel panorama di un cinema indipendente americano troppo spesso asfittico e codificato.