Dimenticare per ricordare: I miei vicini Yamada, di Isao Takahata

Alla sua uscita in Giappone, nel 1999, fu un fiasco commerciale – ufficialmente per la scelta di affidarne la distribuzione alla Shochiku invece che alla consueta corazzata Toho – e persino in Italia era arrivato con prudenza, direttamente in home video. Ma ora che lo si riscopre sul grande schermo, nell’ambito della rassegna Un mondo di sogni animati di Lucky Red, I miei vicini Yamada di Isao Takahata risplende di una rinnovata consapevolezza. Il tempo trascorso ha giocato a favore dell’opera, perché ci permette di inserirla in prospettiva rispetto alla stessa produzione dell’autore. Ad esempio quando vediamo la piccola Nonoko nascere da una canna di bambù – in omaggio al Taketori monogatari letterario – ritroviamo i semi del successivo La storia della principessa splendente. Ma anche perché il tempo e il valore del ricordo sono parte integrante del racconto e delle motivazioni autoriali e artistiche su cui poggia l’intera operazione. A volerla fu innanzitutto il produttore Toshio Suzuki, innamorato della striscia a fumetti Tonari no Yamada-kun di Hisaichi Ishii, pubblicata sul quotidiano Asahi Shinbun e incentrata sulla famiglia Yamada: papà Takashi impiegato, mamma Matsuko casalinga, nonna Shige di gran carattere (che non manca di sottolineare come la casa sorga sul suo terreno), lo svogliato figlio Noboru e la piccola e vivace Nonoko. Le loro storie, raccontate nel formato delle quattro vignette, disegnavano un nucleo giapponese-tipo, alle prese con i piccoli/grandi drammi della quotidianità, già al centro delle discussioni fra regista e produttore, entrambi desiderosi di esplorare il vissuto di personaggi normali, di quelli che cadono e si rialzano grazie alla forza del gruppo, senza clamori spettacolari, ma con il peso e la bellezza dell’essere umani.

 

 
Da lì, il genio di Takahata ha preso letteralmente il volo: la prima bozza di sceneggiatura prevedeva un film di cinque ore, il resto fu lavoro di cesello per arrivare ai 104 minuti finali e mantenere coerente una struttura comunque episodica, cercando equilibrio fra le micro storie, eliminando apposta quelle troppo divertenti, in modo da lavorare su un’alternanza di toni armoniosa come questa esistenza di media straordinarietà. A questo si unisce la tecnica: partendo dalla raffigurazione molto stilizzata su pagina, Takahata opta per uno stile minimale e teso a esaltare la sintesi del tratto, con protagonisti e sfondi poco definiti e una colorazione ad acquerello. Tutto apparentemente molto semplice, ma ottenuto più che con le tecniche tradizionali, con ampio uso di un digitale “mimetico”, più evidente in alcune sequenze che lavorano sulla profondità e sulla tridimensionalità dei volumi, ma nel complesso quasi sempre invisibile. Il massimo della tecnologia (il numero totale dei disegni supera quello di Principessa Mononoke del collega Miyazaki) per tornare all’essenza narrativa del rakugo (il teatro giapponese con un solo narratore e pochi strumenti sul palco) e alla sfida primaria dell’animazione giapponese stessa, da sempre basata sull’utilizzo intensivo delle risorse espressive attraverso il minimo dispendio dei particolari (a fronte del barocchismo di matrice disneyana).

 

 
Così, il ritratto che ne emerge è un gioco di rimandi intertestuali fra storia e memoria, fra la sopravvivenza lieve di un nucleo unito, ma animato da piccoli e simpatici contrasti interni, e un Giappone che assapora gli ultimi scampoli di tradizione, mentre la crisi economica in atto inizia a descrivere un cambiamento. Anche per questo, tratto dominante della storia è l’amnesia: c’è sempre un oggetto che viene scordato, un appuntamento cui si arriva in ritardo, c’è l’accumulo degno di una gag dei fratelli Marx in cui lo zenzero causa una serie di dimenticanze a catena, e quando è la piccola Nonoko a essere lasciata indietro, lei afferma imperturbabile che sono i genitori a essersi persi. Sebbene lieve e divertente nella forma, I miei vicini Yamada racconta in fondo la resistenza quasi nostalgica di quel mondo rispetto ai cambiamenti resi evidenti dai conflitti generazionali in atto: il piccolo battibecco tra padre e figlio trascolora così nella sequenza più tesa con i teppisti in moto, caratterizzata anche dall’alternanza di stile fra un maggiore realismo del tratto e il ritorno al “deformed”. Lo stesso vale per il momento ludico in cui Takashi sogna di diventare il supereroe Gekko Kamen (da noi noto come Moon Mask Rider), ormai poco noto alle nuove generazioni. Tutti episodi scanditi dagli haiku dei poeti Matsuo Bansho e Santoka Taneda e che regalano uno spaccato ironico e tenero sulla consapevolezza dell’umana imperfezione che mantiene il mondo in equilibrio. Un mosaico che può regalare aperture “aeree” e surreali degne delle strampalate imprese di una famiglia Mezil, ma anche costruire un forte significato attorno all’atto di fare la spesa o di portare l’ombrello al padre perché non si bagni sotto la pioggia. Piccoli grandi momenti che rendono I miei vicini Yamada un’opera indimenticabile.