L’interessante tentativo di situare Michael Myers tra sogno e realtà del dittico di Rob Zombie sembrava aver scavato un solco profondo tra il passato e il presente della saga di Halloween. Di certo è stato il viatico per un lungo periodo di riflessione, fatto di tanti progetti abortiti, e una perenne incertezza sul destino delle icone storiche dopo lo sfruttamento intensivo della stagione dei remake. Un periodo caratterizzato da forte entusiasmo produttivo nelle rivisitazioni, ma spesso a scapito di un valore autoriale forte, che pure in Zombie aveva trovato la sua massima espressione, ma non il favore di un pubblico ancor oggi fortemente polarizzato. L’approdo nelle salde mani della Blumhouse cerca pertanto di fissare alcuni punti fermi che, nel rinnovarsi delle caratteristiche più evidenti della tradizione, possano al contempo stabilire nuovi parametri. A far da numi tutelari ci sono i nomi storici di Jamie Lee Curtis e Nick Castle, ancora nei ruoli di Laurie Strode e Michael Myers – il secondo solo in un fugace cameo – mentre più clamorosa è la discesa in campo dello stesso John Carpenter, che il concetto di serialità applicato alle sue storie non l’ha mai digerito troppo e che qui si ritaglia invece il ruolo di produttore esecutivo e autore delle musiche. Narrativamente si fa tabula rasa di tutti i sequel prodotti dal 1981 in poi: una scelta che non dovrebbe stupire a fronte di una timeline da sempre spezzettata in numerose ripartenze, ma che per la prima volta elimina anche il legame di consanguineità tra vittima e carnefice stabilito da Halloween II: Il Signore della Morte di Rick Rosenthal, secondo il quale Michael e Laurie erano fratello e sorella. Più defilata, in questo contesto, appare la figura del regista, David Gordon Green, eclissato dalla presenza dello stesso Carpenter, soprattutto in fase di promozione, ma che ricoprendo anche le caselle di co-sceneggiatore e co-produttore, sembra garantirsi il margine di manovra necessario a unire i desiderata produttivi con le proprie esigenze narrative.
Una sorta di autorialità discreta, ma presente, insomma, che non ha scatenato il dibattito pure legittimo su una scelta registica anomala, per un autore che non aveva mai realmente diretto un horror, pur essendo da sempre interessato alle particolari dinamiche di fascinazione della violenza all’interno di nuclei ristretti, quando non necessariamente familiari. In effetti, sfrondato da tutte le sue direttrici più o meno nostalgiche – ma nel complesso è un sequel più di quanto non sia quel remake mascherato che la promozione vuole far credere – l’Halloween 2018 è un nuovo capitolo della lunga “educazione al male” che Green ha esplorato in opere quali Undertow o Joe. Da quest’ultimo è addirittura mutuata la nuova versione di Laurie Strode, in bilico tra autodistruzione e sicurezza nell’uso delle armi, che peraltro riprende pure alcuni tratti del personaggio così come lo avevamo già visto in Halloween: 20 anni dopo. Un chiaro segnale di come la Curtis stessa veda nel suo alter ego cinematografico un prototipo di eroina forte, ben restio a incarnare il ruolo di vittima e pronta a imbracciare le armi per riprendere in mano la propria vita abbattendo quel demone che nell’ombra l’ha costretta al terrore e all’attesa. La partita fra i due personaggi diventa così un gioco strategico – idea esplicata nella prima apparizione di Michael in prigione su un pavimento a scacchi – fatto di progressivi avvicinamenti, nel corso del quale si ridefiniscono i ruoli tradizionali. La coralità del racconto, sebbene abbastanza disordinata e dispersiva, ha il merito di ribadire un cambiamento di prospettiva per effetto del quale Michael resta l’unico personaggio coerente verso se stesso, totalmente refrattario agli stimoli esterni, e legittimato dalla sua coazione a ripetere gli omicidi. I personaggi che gli ruotano intorno diventano così figure succedanee, che vogliono penetrare il suo segreto o, in ultima istanza, ereditarne il potenziale distruttivo. Il folgorante e già citato incipit in prigione è programmatico anche in tal senso: gli altri reclusi di Smith’s Grove percepiscono e in un certo senso si adeguano e si beano di quel flusso di cattiva coscienza veicolato dalla maschera di Myers, cui solo Michael sembra insensibile. Lo stesso flusso causerà poi la discesa agli inferi dello psichiatra di turno, di Laurie e, forse anche di sua figlia e sua nipote. Green ossequia questo gioco di traiettorie sacrificando la scrittura per esaltare una visualità liquida, in cui le inquadrature si stringono addosso ai personaggi per catturarne ogni sfumatura emotiva, mentre lo spazio si dilata e si restringe in omaggio alla natura stolida eppure fluttuante di Michael Myers – protagonista al suo arrivo a Haddonfield, di un lungo piano sequenza che riflette quello fondativo del capostipite carpenteriano, ma ne elimina la soggettiva per ribadire la natura non introflessa del discorso caro all’autore. Anche per questo, Halloween 2018 espunge dal contesto la componente magica e fiabesca che era l’autentico motore propulsivo dell’originale, cui preferisce un approccio più realistico, reso evidente dalla furia assassina di un killer che spezza, strangola, cava denti e accoltella con impeto brutale, e viene affrontato con fucili e trappole secondo uno schema western da assalto al forte. Di concerto, anche lo score carpenteriano cambia pelle, perde parte dell’essenzialità originaria per caricarsi di sonorità più elettroniche e vicine ai recenti Lost Themes discografici dell’autore. E nel gioco delle parti, progressivamente, i ruoli della vittima e del carnefice si ridisegnano, con Michael impotente di fronte a una Laurie indistruttibile, che sopravvive dalla caduta dal primo piano, per poi scomparire nell’inquadratura successiva, proprio come il killer mascherato aveva fatto nel memorabile epilogo di quarant’anni prima.