Sembra proprio che la questione sia linguistica: il silenzio del non dire il “genocidio” degli armeni (“soyk?r?m?” in turco) perpetrato dalla Turchia tra la fine del diciannovesimo secolo e il 1915, contrapposto al silenzio di Nazaret Manoogian, il protagonista (interpretato da Tahar Rahim) di questo non facile film di Fatih Akin. Il taglio – The Cut – sulla gola di questo personaggio deportato dai gendarmi dei giovani turchi, è quello che dovrebbe sgozzarlo, togliergli la vita, ma in realtà gli impone solo il silenzio e una vita raminga – altre diaspore – da fantasma in cerca di un posto per sé e, soprattutto, del posto (infine l’America) in cui le figlie gemelle, disperse e credute orfane, sono approdate. E poi c’è l’altro silenzio che si vorrebbe oggi in bocca a un altro (santo) padre, imposto da parte delle autorità turche sull’innominabile “soyk?r?m?”, come se fosse tutto un gioco lessicale o vocale (vecchia abitudine dei totalitarismi). E il silenzio che infine ricade fatalmente sul film di Fatih Akin, imbrattato sul versante linguistico da un recitato anglofono globalizzante, che rispecchia l’annullamento identitario degli armeni nell’annientamento linguistico della fiction: si diceva alla Mostra di Venezia, dove il film ha avuto una davvero poco amata prima…
Insomma, silenzio su silenzio su silenzio: The Cut (tradotto nel linguaggio degli italici distributori con l’informe Il padre…) è un film che slitta su se stesso, eppure a rivederlo maschera il consueto dissesto logistico del cinema perennemente in transito di Fatih Akin nella trama di una diaspora tutta soggettiva, scritta nell’ossessione di un uomo spinto a ricongiungere i margini di un solco biografico che lo ha separato dalla moglie e dalle figlie. Indubbiamente il film sfugge a se stesso, implora giustizia per gli armeni ma non affonda la lama nella loro questione “ideologica” e “identitaria”. Né potrebbe farlo, del resto, essendo Akin uno che di scollamento identitario si nutre da sempre, ragazzo di Altona, Amburgo, che guarda a Istanbul e all’avita Trebisonda come a una casa perduta. The Cut è in un certo senso un film di ambigui addii, di separazioni esaltate come fughe verso un altrove in cui scoprire orizzonti visivi eccezionali: sembra quasi di vedere un’operazione involontariamente consona e incongruamente contigua a quella di un altro (non)tedesco: il bavarese Herzog, che in The Queen of the Desert ha scandagliato gli stessi anni, ma sui passi di un’altra viaggiatrice, Gertrude Bell, lei sì dotata di parola… Come questo, anche The Cut è infatti un film che cerca la dimensione del cinema (Akin ha voluto assolutamente girare in pellicola, mirando l’orizzonte con un 40mm), elaborando il dramma nel melodramma, la deportazione nell’avventura, guardando a David Lean, all’iconografia chapliniana… Non stupisce certo che Scorsese abbia usato parole così piene in difesa di un’opera che cerca la dimensione del grande schermo. Fatih Akin è forse solo reo di distrazione d’immaginario, uno spostamento progressivo del piacere del filmare applicato all’istinto di chi ha adottato la questione armena per incidere nella carne la sua parte turca e (ri)evocare per la sua parte tedesca l’immagine di uno sterminio che ha storicamente profetizzato quello perpetrato non troppi anni dopo dai nazisti sugli ebrei… Che il silenzio sia proprio questo? Che il non detto ricada proprio a scoprire il rispecchiamento reciproco di diaspore, genocidi, folli crudeltà della Storia? Fatih Akin che filma il finale fantasmatico, lunghissimo, interminabile: dissolvenze gravi e anche un po’ grevi sul campo lungo di un’America che esternalizza ogni identità nella sofferenza altrui vissuta nell’altrove della distanza… Resta il segno di un film che fluttua sul corpo silenzioso e sempre più invisibile di un eroe (chapliniano? Fordiano?) che non sa di esserlo e nutre la sua (dis)illusione. Tutto il resto è silenzio…