«Non sono molto bravo a parlare di me, forse anche per questo ho iniziato a scrivere canzoni. A volte ho scritto cose di cui mi vergogno profondamente; ma alla fine, in mezzo a quelle parole, si cela la parte più vera di me». Si apre pressappoco così – con una rivelazione in apparenza semplice, ma che di fatto indica come riposi nelle canzoni il codice d’accesso per un mondo che finora era rimasto inesplorato – Mahmood, docu-film scritto da Virginia W. Ricci e diretto da Giorgio Testi, presentato alla Festa del Cinema di Roma nella sezione Alice nella città. Un biopic dal sottotitolo inutilmente pomposo (L’incredibile storia di uno dei talenti più amati della musica italiana), che racconta con tratto invece lieve il dietro le quinte di Alessandro Mahmood, cantautore milanese dallo stile vocale singolare (caratterizzato da un melisma che richiama da vicino la musica mediorientale), un artista che negli ultimi tre anni ha vinto due volte il Festival di Sanremo, l’ultimo a febbraio in coppia con Blanco. Se per gli spettatori la rivelazione è esplicita, detta con naturalezza dal protagonista medesimo, per sua madre Anna Frau – che lo ha cresciuto da sola dopo che il marito si era allontanato da loro – è stata una scoperta che è andata di pari passo con l’ascolto attento delle canzoni: «È attraverso esse che ho iniziato davvero a capire – spiega la donna – quello che Ale stava vivendo e come prima aveva vissuto la separazione da suo padre».
C’è chi sostiene che con questo film Mahmood si metta totalmente a nudo, racconti (e faccia raccontare) il suo privato. Non è così: l’artista regala piuttosto quadretti della propria infanzia, racconta i sogni di bambino, l’idea nitida di voler essere un cantante, di mantenersi con la musica. E lo fa in modalità genuina, per far capire chi era e chi è. Eppure conservando gelosamente (e giustamente) il riserbo su tutto il resto, come se ci stesse confidando: «Questa è la mia storia, il mio percorso; queste sono le persone che mi sono state vicine durante il cammino; questi sono la genesi e il modo in cui nascono le mie composizioni, che a volte sono più dure di quello che avrei voluto, perché la sintesi può essere brutale. Ma il resto non vi deve interessare, per cui resta fuori dal racconto». La struttura del film è conseguenza diretta di ciò che esso vuole far emergere: esile e allo stesso tempo scorrevole, legata all’aneddoto o alla testimonianza, focalizzata sulle figure che hanno avuto un ruolo fondamentale nella crescita del cantautore (in tal senso, la centralità è senz’altro della mamma), arricchita da estratti dei live più recenti (non sempre significativi) e su brevi inserti cartoon (per contro efficaci).
Negli anni della formazione assume un ruolo decisivo lo sgabuzzino di casa, che per Mahmood non era il luogo del “castigo” di molti bimbi d’antan, ma il rifugio dove poteva costruire un mondo tutto suo, scollegandosi dal reale: un meccanismo di autodifesa, certamente, che asserisce tuttavia di aver vissuto serenamente, dentro un’infanzia che considera felice. Oggi, a ogni modo, dello sgabuzzino non c’è più bisogno: per essere altrove, per vivere in un mondo parallelo, ci sono appunto le sue canzoni. Se il rapporto con la madre è simbiotico dal principio (nonostante resistano gli spazi di non detto di cui sopra), i conti con la presenza intermittente del padre egiziano li farà molto più tardi, attraverso la hit Soldi, che al genitore non è (ovviamente) piaciuta per nulla, causando un’ulteriore rarefazione dei loro già minimi rapporti. Uno degli episodi più curiosi riguarda la bocciatura rimediata a “X Factor”: anche grazie a un montaggio che si fa serrato, vediamo i (rinomati) giudici del contest formulare apprezzamenti iperbolici sulle qualità del ragazzo, per poi escluderlo con la straniante motivazione che avrebbe poche possibilità di affermarsi (sigh!). Quindi la narrazione imbarca frettolosamente i parenti e gli amici di sempre (anch’essi tutti concordi nel considerare “famiglia” Mahmood), e con maggiore ampiezza i musicisti di riferimento (su tutti, la cantantessa Carmen Consoli, ripresa in momenti casalinghi che sono tra le vette del documentario), insieme ai personaggi che che hanno creduto nelle sue qualità (principalmente il compositore e produttore Dardust, ma c’è una menzione speciale pure per Mauro Pagani). Infine, un po’ di spazio a Blanco, compagno d’avventura da Brividi, e un poco fagocitante, in occasione del secondo trionfo sanremese. L’attitudine positiva e corroborante che pervade il film ne compensa la gracilità di fondo, rendendolo potabile anche per chi non è fan.