Fra tensione e sensi di colpa: Goodbye Julia di Mohamed Kordofani

Qualcosa si sta muovendo in Sudan se parliamo di cinema? In uno dei Paesi scossi negli ultimi anni da una delle guerre interne più devastanti a livello mondiale? C’è spazio per una nuova generazione di cineasti che sappia farsi portatrice di uno sguardo potente per raccontare il proprio Paese, le tensioni che lo attraversano, le storie comuni, i riflessi politici, senza dimenticare la relazione con il Sud Sudan – nato nel 2011 dopo un referendum previsto dagli accordi di pace che posero fine a decenni di guerra civile? A vedere Goodbye Julia, opera d’esordio di Mohamed Kordofani, i dubbi sorgono e concernono proprio lo sguardo adottato per descrivere i complessi rapporti tra la popolazione musulmana del Nord e quella cristiana del Sud in un preciso periodo storico. Nato a Khartoum, Kordofani (non l’unica voce, va ricordato, di un cinema sudanese che cerca comunque un posto sulle mappe cinematografiche odierne), ambienta il suo primo lungometraggio nella capitale sudanese in due date – poste come didascalie – che corrispondono alle due parti che compongono il film: il 2005 e il 2010. Vale a dire, prima della separazione del Sud dal Nord (sulla quale termina Goodbye Julia con la partenza dei sudanesi meridionali, trattati come schiavi in Sudan, verso il nuovo stato).

 


 
Bastano poche scene, poste in apertura, nella Khartoum dell’agosto 2005, per esprimere il clima di tensione che si respira. C’è un interno familiare, la casa di una coppia musulmana benestante (Mona ha dovuto abbandonare il piacere del canto per via dell’opposizione del marito falegname Akram, possessivo e conservatore). E c’è un esterno dove fervono rivolte dei cristiani alla notizia della morte in un incidente del loro leader John Garang, strade piene di gente che assalta le abitazioni e dà fuoco alle automobili. [Spoiler] Bakri, vicino di casa di Mona e Akram, non esita a sparare, pur se in aria. Julia, il marito Santino e il figlio Daniel sono invece cristiani del Sud, malvisti, si vogliono bene ma sono impauriti dai nuovi accadimenti. Il pre-testo per fare incontrare questi personaggi, queste due famiglie, in particolare le due donne, è un piccolo incidente: Mona in auto investe, senza conseguenze, Daniel e, presa dal panico, scappa, inseguita in moto da Santino fin sotto casa. Sulla soglia, Akram reagisce e spara a bruciapelo a Santino uccidendolo e, con la complicità della polizia, cancella le prove della sua colpevolezza. Sarà Mona a inventarsi una soluzione, che innescherà tanto ulteriori tensioni quanto nuove e inattese relazioni, per riparare quanto successo.

 


 
E la menzogna diventa il perno della narrazione perché a volte è meglio mentire che dire la verità, anche se poi quest’ultima affiora o, meglio, è già affiorata e a sua volta tenuta nascosta. Fino al momento in cui si dovranno fare delle scelte. E qui ai due personaggi femminili è affidato il riscatto e l’inizio di una nuova fase delle loro vite. Mona tornerà a cantare. Julia si imbarcherà, come migliaia di altri, su un battello verso il Sud Sudan indipendente (la seconda parte del film è collocata proprio nel dicembre 2010 nel pieno della transizione). A mancare, però, al film è una “visione”, l’adozione di un punto di vista che vada oltre la mera illustrazione di una sceneggiatura composta di (troppe) tappe, di un accumulo di situazioni, di uno sguardo che “incida” le inquadrature e non rimanga soltanto sulla superficie di esse consegnando tutto a una fotografia patinata e “occidentale” (uno dei rischi di certo cinema dei Sud del mondo), a una progressione diegetica scontata, a una “bella confezione” dentro la quale “accomodare” il testo.