C’è un cinema italiano realizzato da registe che in questi anni sta offrendo opere che sono dei gioielli da tenere stretti e divulgare, da cercare spesso ai margini della grande distribuzione, che fanno bene agli occhi e al cuore, fatto da esordienti di immenso talento che si immergono nelle inquietudini e nell’in-stabile quotidianità di personaggi femminili in cerca di un loro posto nel mondo, interpretati da attrici in stato di grazia. Si pensi a Beatrice Baldacci (La tana), Carolina Cavalli (Amanda), Ilaria Braccialini e Federica Oriente (Il canto di Alina), Maria Giménez Cavallo (Anime galleggianti)… E a Sara Petraglia al suo primo lungometraggio con L’albero (nelle sale dal 20 marzo, imperdibile). L’albero ha per protagoniste due ventenni – Bianca (Tecla Insolia) e Angelica (Carlotta Gamba) – i cui corpi e menti in tumulto, corpi eccitati, insonni, tormentati, addormentati, trascinati, voraci di vita e di esperienze, si dibattono in giornate e nottate romane (con trasferta a Napoli) per strade, appartamenti, discoteche, corpi che si avvicinano e separano in un costante, frenetico movimento che è vertigine, danza febbrile dentro la quale perdersi e ritrovarsi in una appassionata ricerca esistenziale che assume le forme della dipendenza dall’altro (dall’altra) che ti sta accanto in un divorante star male d’amore e dalla cocaina che Bianca (nome che rimanda a quello dato a quella droga) e Angelica consumano a grandi dosi. Ma non ci sono moralismi nel raccontare questo elemento che segna il vivere quotidiano delle due ragazze che sono amiche, amanti, condividono un nuovo appartamento preso in affitto a caro prezzo con un enorme e bellissimo albero che si vede dalla finestra e dal quale Bianca rimane colpita da subito. Un vero colpo di fulmine. In un testo abitato da colpi di fulmine.
Mentre attorno a loro entrano e escono di scena, oppure se ne parla senza vederli, numerosi personaggi a fare da coro e che sono fidanzate, amiche e amici della loro età o una donna un po’ più adulta, con i quali trascorrere momenti, emozioni, azioni, stati d’animo in un panorama dove genitori e altri adulti sono assenti (salvo apparizioni minime: la dottoressa del centro medico dove Bianca si reca per disintossicarsi; i carabinieri che le fermano in una zona romana di spaccio notturno; il fornitore napoletano di droga; la madre di Celeste, la fidanzata di Bianca, che in una scena, senza bisogno di parlare, ma con grande intensità, compare accompagnando la figlia al treno che andrà a farsi curare a Milano dopo avere scoperto di avere un tumore alla testa). Tutto accade nel giro di qualche anno. L’incipit è dato da Bianca che corre in bicicletta e ricorda in voce fuori campo, evocando Angelica – “Chissà se ti ricordi, e cosa ricordi” -, quanto accaduto “sette anni fa, o cinque, o cento”. Perché il tempo ne L’albero è qualcosa di non lineare. Se è dato che buona parte del film è un lungo flash-back (prima dell’epilogo si torna a Bianca in bicicletta), la struttura è quella di uno sguardo libero da costrizioni diegetiche e passaggi rigidi. Tutto è fluido e ellittico, molte cose rimangono non dette, non serve dirle, le immagini suggeriscono come meglio non potrebbero. Petraglia lavora sul tempo e sullo spazio costruendo una visione complice grazie a una camera a mano sensuale, lieve, con la quale stare accanto a Bianca e Angelica (Insolia e Gamba sono magnetiche nelle loro interpretazioni, indimenticabili, esprimono con ogni parte del corpo le tante sfumature dell’esserci), e chiunque appaia nelle inquadrature, anche solo brevemente; dissemina una continua serie di “inciampi” temporali che portano alla luce situazioni vissute e viste in precedenza aggiungendo micro-situazioni inedite di quei fatti in forma di pensieri che si visualizzano rivivendo quanto trascorso (si pensi alla vacanza a Napoli, ai ragazzi del posto sulla spiaggia che compaiono come “inserti” nel momento in cui Angelica legge le frasi scritte su di loro da Bianca nel suo inseparabile quaderno).
Bianca (che è il personaggio principale, la narratrice) e Angelica sono inseparabili, litigano e si amano (lasciandosi andare ai baci e all’attrazione sessuale in auto – e anche qui una magnifica ellisse lascia immaginare il prosieguo di quell’incontro), si divertono (magnifica è la scena in bagno con Angelica che si asciuga i capelli e il corpo e insieme lei e Bianca iniziano a ballare cantando Lontano dagli occhi di Sergio Endrigo che si sente in sottofondo e che loro espandono), eppure si lasceranno andando Angelica a vivere e lavorare a Milano. Bianca continua i suoi detours urbani, in una discoteca assiste alla performance di una cantante “lynchiana”, è sola e quella scena per Petraglia è essenziale in quanto dà un cambio narrativo al film, inoltre ammettendo di avere proprio voluto rendere un omaggio al cinema di David Lynch. Perché L’albero possiede una dimensione onirica, “sognata”, per via della sua composizione, della sua flagranza estetica. Infine Angelica torna a Roma. Bianca la ritrova al cimitero dove è con gli amici sulla tomba di Celeste (nel frattempo morta, non sopravvissuta alla malattia, in un’altra esemplare ellisse). Sono passati tre anni. Angelica appare accanto a Bianca e lo sguardo di Petraglia e il montaggio subito fanno pensare a una sua apparizione, a un pensiero di Bianca. E se fosse così? Se, andandosene insieme in bicicletta, Bianca immaginasse di farlo con una Angelica ancora una volta sognata e desiderata, presente solo nella sua immaginazione? Se, quindi, Angelica (con quel nome altrettanto non casuale), fosse “soltanto” una creatura nata dalla e nella mente di Bianca? Immaginata invece che reale? Reale proprio perché immaginata? Sara Petraglia accoglie entrambe le interpretazioni. E conferma la libertà di lasciare a chi guarda spazi di pensiero. Non chiude mai le immagini, le fa ovunque respirare in un’opera prima di splendida nitidezza, dolcemente e profondamente fisica, luminosamente sensoriale.
Le immagini sono di © Sara Petraglia.