Expectations… Exploitation… Quanti sono i gradi di separazione tra le aspettative e lo sfruttamento, tra ciò che l’individuo si aspetta dalla (propria) vita, ma magari anche dalla società e perché no dalla Storia…, e ciò che la Storia, la società e magari anche la vita si aspettano da lui? E quindi: quanti sono i gradi di separazione tra le aspettative, legittime e meno legittime, e lo sfruttamento al quale ogni individuo è soggetto o si sottopone più o meno consapevolmente? La risposta di Radu Jude è Do Not Expect Too Much From the End of the World, magnifico film filosofico in forma di commedia, che campeggiava orgogliosamente nel Concorso di Locarno76. Stralcio di sperimentazione filmica applicata alla smaterializzazione della Storia cui stiamo assistendo imperterriti da qualche decennio a questa parte, il nuovo film del grande rumeno è una sorta di road movie metropolitano a doppio corpo, che si muove per le strade di Bucarest al ritmo delle troppe ore lavorative di Angela, assistente di produzione per un’agenzia al servizio del cinema ma anche della comunicazione di multinazionali. La dimensione volumetrica dell’abitacolo della sua auto è lo spazio in cui vita e lavoro di Angela si sovrappongono e si occupano reciprocamente, trascinandosi senza sosta per eccessive ore di corsa da un punto all’altro della città.
Le interviste per il casting del filmato di una multinazionale austriaca per prevenire gli incidenti sul lavoro si intrecciano all’urgenza di recuperare delle lenti speciali dal set di un film di Uwe Boll e poi al passaggio da dare all’anziana madre, al breve incontro con l’amante e alla corsa in aeroporto a prendere la manager della multinazionale in arrivo dall’Austria… La giornata finisce e inizia di nuovo senza nemmeno il tempo di tornare a casa, ché c’è da portare sul set Ovidio con la sua sedia a rotelle e la famiglia, il disgraziato “testimonial” prescelto per raccontare il suo drammatico incidente, in una narrazione che però non deve mettere in cattiva luce la multinazionale. Quella alla quale Radu Jude si affida è la frenesia di un flusso di incoscienza lavorativa che si traduce nella concretizzazione di un rapporto ormai astratto tra lo spazio esistenziale dell’individuo e la funzione operativa del lavoratore: l’unica chiave di accesso alla narrazione della realtà contemporanea è lo sfruttamento, che è allo stesso tempo attivo e passivo… Si è soggetti e oggetti allo stesso tempo, sfruttati e sfruttatori di se stessi, in un dramma che, visto con gli occhi del paradosso cari al regista rumeno, diventa una commedia a denti stretti. Angela (interpretata da una Ilinca Manolache assoluta) è sfruttata e sa di esserlo, ma accetta di stare nel sistema e anzi riproduce sul proprio corpo lo sfruttamento cui è soggetta, strappando a ogni momento di vita il tempo per realizzare dei filmati da postare su Tik Tok, in cui attraverso il suo avatar dalle sembianze maschili si lancia in invettive sociali e politiche. Alla stessa maniera Radu Jude fagocita nel suo film un vecchio film rumeno, Angela merge mai departe di Lucian Bratu, storia di una tassista nella Bucarest d’inizio anni ’80, inserendone intere scene per creare un vero e proprio contrappunto narrativo alle situazioni un cui la Angela del suo film si trova via via.
Operazione di exploitation filmica mirata a dare a Do Not Expect Too Much From the End of the World quella profondità storica, quella tridimensionalità sociale, che altrimenti gli sarebbe negata in ragione del livellamento idealistico e morale che appiattisce la dimensione storica contemporanea. La magnifica (perché flagrante, evidente, plastica) complessità del film di Jude sta proprio in questa sua capacità di creare un oggetto che non si limita a dire e ad esprimere i concetti, ma li incarna e li usa come struttura. Stratificandosi sui livelli paralleli e complementari offerti contemporaneamente dalla narrazione della giornata lavorativa della sua Angela, dagli inserti della giornata lavorativa della Angela tassista nel film di Lucian Bratu, dalle immagini alterate postate su Tik Tok dalla protagonista e infine dal rough cut delle riprese sul set del film promozionale, in cui Ovidio finisce per farsi più o meno inconsciamente sfruttare dalla multinazionale che gli metterà in bocca parole non sue… Attraverso tutto questo Radu Jude costruisce una teoria della dissociazione tra l’individuo e il proprio tempo (lavorativo e vitale) che narra perfettamente il punto terminale della Storia cui siamo arrivati. Perché la fine del mondo, da cui non bisogna aspettarsi troppo, non è altro che la fine della Storia, intesa come narrazione magnifica e progressiva.