Umana, disumana, persa nell’alto dei cieli, sprofondata nell’abisso della condizione esistenziale: Kim Ki-duk ritorna con una parabola surreale chiusa nel circolo simbolico descritto dal titolo: Human, Space, Time and Human (“Inkan, Gongkan, Sikan grigo Inkan”, in Panorama Special). La distorsione spaziotemporale del cinema di Kim Ki-duk, del resto, non è che l’altra faccia dell’alternativa tra Storia e Uomo, ovvero tra Natura e Spirito, Istinto e Elevazione, Sopravvivenza dell’anima e Corruzione della carne. L’alternarsi stesso del suo discorso di film in film ne è l’argomentazione più lampante: a due anni di distanza da The Net, che si collocava in anticipo sulla spaccatura identitaria del 38° Parallelo e la trasformava in una dicotomia di coscienza tra verità e menzogna, il più autarchico e inconciliato dei maestri coreani torna alla Berlinale 68 con Human, Space, Time and Human , in cui riprende il versante trascendentale del suo cinema e lo traduce in una riflessione letteralmente radicata nella carne e nel sangue dell’essere umano: questione di istinto e purezza, potere e sopraffazione, sopravvivenza e sottomissione, senso morale e etica della comunione, abbandono alla disperazione e spinta rigenerativa.
Immaginatelo come un esperimento metaforico nella palingenesi dell’umanità, la visione apocalittica ed edenica di un Uomo spinto a confrontarsi con la sua vera natura. O pensatelo anche con un’odissea nello spazio, e nel tempo: non un’astronave persa nelle profondità siderali, ma una nave (da guerra) sospesa nel cielo, una sorta di arca di Noè, con a bordo esemplari di ogni genere d’Uomo, che si ritrova alla deriva nell’alto dei cieli, lontano dal mare e dalla terra, dispersa nel nulla di una condizione umana assoluta. Niente di nuovo, a ben pensarci, rispetto al cinema di Kim Ki-duk, che da sempre si costruisce per astrazioni radicali, metafore in cui si incarnano dimensioni assolute di una condizione umana intesa in senso spirituale, sociale, istintuale. E’ proprio su questa tripartizione tra istinto, spirito e comunione sociale che tutto il suo discorso si struttura da sempre e ancora una volta ritorna a districarsi in questo suo ultimo film. Con una virulenza simbolica abbacinante, talmente estremo da risultare ovviamente purificato e indolore: nelle due ore di durata attraverseremo ogni stadio di degrado dell’umanità, dall’arroganza del potere alla violenza della sopraffazione, dall’abuso sessuale all’automutilazione, dal cannibalismo all’incesto…
Su questa nave persa nell’alto dei cieli Kim Ki-duk costruisce un universo astratto in cui l’Uomo si rappresenta in ogni suo stato, dal più alto al più basso, in una palingenesi sospesa tra Spirito e Carne che è la versione storicizzata della parabola spirituale rappresentata quindici anni fa in Primavera estate autunno inverno e ancora primavera. Come sempre il ciclo vitale è la forma narrativa che struttura le opere di questo regista, qui costruito attorno alla parabola di morte e resurrezione di una Umanità rappresentata dal gruppo di passeggeri di una nave da guerra utilizzata per una strana crociera. A bordo c’è ogni tipo d’Uomo: una coppia di sposini e una di fidanzatini, un potente senatore col figlio, una banda di gangster che si mette al suo servizio, una varia progenie di poveracci che danzano, cantano, mangiano, un gruppo di ragazzini ubriachi che bulleggiano in giro… L’equipaggio regge le sorti, ma il potere è subito in mano al politico, che accetta di buon grado i servigi dei gangster. Ben presto i privilegi saltano all’occhio e generano proteste, ma poi quando cala la notte l’arroganza del potere diventa violenza che si abbatte sulle “vergini” e sugli innocenti: stupri, assassini, sopraffazione. Tutto sotto l’occhio di un vecchio muto, un poveraccio che vive nell’ombra della sua stiva e osserva tutto, raccogliendo la terra dagli angoli della nave come fosse un bene prezioso. Quando il ventre più volgare di questo leviatano che è l’Umanità è sazio e dorme, però, una tempesta misteriosa fa giustizia e la nave si ritrova sopra le nuvole, sospesa in cielo, isolata nel nulla: una bolla di vuoto dove ogni cosa dovrà fare i conti con la paura e il destino dell’umanità si compirà sino in fondo. E allora l’apocalisse che si avvicina, i viveri che finiscono, i potenti che comandano con la forza e affamano i deboli, le rivolte impossibili, i prepotenti che lottano tra di loro… Il vecchio saggio salva la vergine che ormai porta in grembo la vita del futuro e mentre tutti muoiono sotto i colpi della ferocia, lui coltiva nel segreto della sua stiva una vita vegetale che sarà nutrimento per il futuro. Il film diviene allora un apparato visionario ridondante, davvero una kubrickiana odissea nello spazio dell’uomo: la nave in cielo sembra quasi un quadro di Magritte, un’isola lussureggiante di vita cresciuta, coi cadaveri che hanno fatto germogliare i semi piantati nelle ferite dal vecchio santone e la donna che cresce suo figlio… Ma non è finita, ovviamente, perché il ciclo vitale per Kim Ki-duk è un circolo vizioso di violenza e istinto, dal quale l’umanità purtroppo non ha scampo. Netto, spietato, didascalico sino allo stremo delle forze logiche, ma anche puro e purificato, inconciliato e strategico nel suo guardare in faccia la miseria dell’umanità ma anche la sua dolce e docile bellezza, Kim Ki-duk conferma la storia recente del suo cinema, fatto di parabole scolpite nella carne e nello spirito dell’Uomo.