A Las Vegas, dopo oltre trent’anni di onorata carriera, la corsa delle Razzle Dazzle è arrivato alla fine. Lo show, a metà strada fra burlesque, spogliarello e rivista, deve lasciare strada a un circo. Shelley (Pamela Anderson) che ha sacrificato tutto, compreso la figlia Hannah (Billie Lourd), ne era la stella e ora non è più niente. A 57 anni non ha un futuro, anzi una vita. Rimane la solidarietà fra colleghe, un direttore di sala, manager tuttofare ammalato di malinconia (Dave Bautista) e un’amica (Jamie Lee Curtis) che per tirare avanti è finita a lavorare in un casinò. Una fenomenale Pamela Anderson si carica sulle spalle il film: «sono stati i 18 giorni più intensi, faticosi e liberatori della mia vita. Aspettavo da sempre una parte così. Quella di una donna vulnerabile ma forte, una combattente. Che ha smesso di sentirsi in dovere di chiedere scusa a tutti, si attacca al suo equilibrio e prova a guardare avanti». Ovviamente l’effetto-specchio con la star di Baywatch che deve fare i conti con il tempo che passa è fortissimo. Gia Coppola, nipote di Francis è al terzo film (dopo due commedie Palo Alto, sul malessere degli adolescenti e Nessuno di speciale, sulle derive del mondo dello spettacolo al tempo di Internet) privilegia i primi piani, evita con cura le sequenze di danza e lascia completamente la ribalta a Pamela Anderson che risulta irresistibile nelle scene in pieno sole, nella periferia di Las Vegas, costretta a venire a patti con campi lunghi da riempire. Una creatura bella, vulnerabile, piena di luce che sembra sospinta da un vento leggero.
La regista ha confessato di essere sempre stata affascinata da Las Vegas («da ragazza amavo scattare foto agli angoli più insoliti della città»), probabilmente perché si tratta di una metafora della società americana: una terra dei sogni creata dall’uomo, con un’architettura moderna rivolta al passato. Manifesto di un cultura che elimina facilmente tutto ciò che appare vecchio, che si tratti di corpi o di palazzi. Per questo: «a Las Vegas molti edifici storici sono stati sostituiti, come è successo con le showgirl». Il discorso sull’evoluzione del corpo, sul cambiamento di prospettiva riguarda anche il massiccio Dave Bautista partito sullo schermo come fighter di vaglia a WrestleMania e atterrato nel cinema di M. Night Shyamalan. E che dire della strepitosa Jamie Lee Curtis che espone la sua fisicità, a partire dal ballo improvvisato su un palco del casinò sulle note di Total Eclipse of the Heart (1984, si guarda ancora al passato) di Bonnie Tyler, perché ha scoperto che spesso le cameriere non portano solo i drink, ma si esibiscono anche su piccoli palchi durante il loro interminabile turno. Il debito nei confronti del Sean Baker di The Florida Project è chiaro, il clima da sogna americano inacidito è quello, con le protagoniste che stazionano inquiete fra melò famigliare e un romanticismo sull’orlo di un cinismo che scivola con apparente freddezza fra le cose della vita, dove ognuna lascia un pezzetto di cuore: in questo senso è paradigmatico il fatto che Shelley abbia rinunciato per la carriera al suo ruolo di madre, dando la figlia in affidamento a una famiglia di Tucson per ritrovarsi ad incontrare una sconosciuta, che non la considera al punto di non averla nemmeno informata sulla sua laurea imminente. L’innocenza ferita di Shelley la fa traballare e il suo sguardo rivolto all’indietro la avverte che la sua vita, come la conosceva, è finita. Poco male, nulla è stato conquistato che il tempo non possa riprendersi semplicemente scorrendo…