Viaggio sulla luna in terra di Polesine, sospeso tra Steven Spielberg e Carlo Mazzacurati. Nelle intenzioni – dichiarate, ambiziose – di Antonio Padovan, già autore di Finché c’è prosecco c’è speranza, il passo rischia di essere più lungo della gamba. Delle due, luna, verrebbe da dire. Non sempre, però: a volte il sogno, anche se non realizzato, va al di là dei mezzi, ed è più importante il tendere che la meta. Allora, in una duplicazione etilica, poetica e annebbiata, l’impronta sulla terra nella campagna fluviale si può anche specchiare nella prima traccia dell’uomo nel mare lunare della Tranquillità, che fece sognare il Novecento così come muove il protagonista, ossessionato da quel piccolo grande passo. E anche la commedia italiana, con i suoi stilemi (nord versus sud, masse corporee gravitazionali di risate, provincialismi alieni, bar dello sport) può giocare il suo incontro ravvicinato con il bockbuster americano e la sua poetica della luce, a costo di ritrovarsi più in un luogo stralunato e caricaturale alla Stefano Benni che in un fellinesco sogno d’altrove interiore e nostrano.
Così, anche solo nel pervicace anelito ariostesco, il nostro man on the moon, l’eccentrico Dario Cavalieri (Giuseppe Battiston), e il suo doppio/opposto, il fratello Mario (Stefano Fresi), stesso padre, dal primo idealizzato e dall’altro visto per quello che è, si ritrovano a convivere in una trama un filo paludosa, in cui, per sfuggire alla miseria della fabbrichetta, si può fare ancora delle dinamiche buddy-buddy qualcosa di nuovo, e della nebbia del Nord Est carburante propulsivo di magnifiche ossessioni. Scemo e più scemo, questi due fratelli nei guai, minacciati da una provincia normalizzante e senza fantasia, passando per l’attrito, generano i germi di una re(l)azione, riconoscendo ma non accettando la prosaica realtà fallimentare e terra terra dei padri e della società, senza rinunciare alla scintilla (esplosiva) del sogno infantile. In un contesto nostrano di disillusione e sfiducia, il film di Padovan, pur con le sue ingenuità e velleità, possiede però il coraggio – fra il quale quello distributivo di uscire in sala il 20 agosto, in tempo di Covid a metà – della dimensione onirica e di un contagioso asfalto utopico (sottolineato dalla colonna sonora orchestrale di Pino Donaggio, memore di John Williams): come lo scalcagnato razzo del protagonista, questo oggetto cinematografico poco identificato ha la forza di guardare in alto, di spiccare il volo, di coltivare il seme della speranza. Da sostenere.