Da un lato ci sono i fatti reali, accaduti tra il 2001 e il 2011, quando la nazionale di calcio delle Samoa Americane, considerata la peggiore selezione della FIFA dopo la sconfitta per 31 gol a zero contro l’Australia, fu rimessa in piedi dall’allenatore olandese Thomas Rongen. Il nuovo CT portò infatti i giocatori a un passo dal superare il primo turno di qualificazione ai campionati mondiali del 2014, rompendo l’altrettanto poco invidiabile primato delle 38 sconfitte consecutive. Da qui sono partiti i documentaristi inglesi Mike Brett e Steve Jamison nel 2014, con il loro film Next Goal Wins, che ha ricostruito quell’eroica odissea, guadagnandosi anche un riconoscimento ai British Independent Film Awards. Il passo successivo avviene adesso, con l’ingresso in campo di Taika Waititi, evidentemente attratto dall’incontro fra realtà apparentemente estranee: dopo aver spedito Thor nello spazio e nell’Olimpo, essere entrato come occhio indiscreto nella Vita da vampiro e aver narrato l’impossibile legame fra Jojo Rabbit e l’amico immaginario Adolf Hitler, al regista neozelandese non poteva sfuggire l’occasione ghiotta di un’ennesima storia di reciproca conoscenza e rinascita. Infatti, in Chi segna vince, la sua trasposizione della vicenda, non è soltanto Rongen a salvare la scombinata nazionale, ma anche la cultura delle Samoa Americane a influire sul carattere collerico e poco cooperativo del tecnico, che già gli era costato un matrimonio, una famiglia e una carriera. Rongen si vede infatti “esiliato” nell’arcipelago del Pacifico dalla FIFA, ormai poco incline a sopportare i suoi scatti d’ira a bordo campo e la sua incapacità a riconoscere i propri errori.
Una caratteristica, quest’ultima, che porta l’allenatore a non rendersi conto nemmeno di come il rapporto con la moglie Gail sia ormai giunto al capolinea, complice pure il destino della figlia, che sentiremo soltanto come voce dei messaggi in segreteria, riascoltati dall’uomo ossessivamente – tanto per ribadire l’interesse di Waititi per i legami affettivi e una prospettiva che non escluda mai dal proprio radar gli universi infantili e adolescenziali. Sebbene la materia possa già così fornire ottimo materiale umano, il film è ben consapevole anche del potenziale metaforico insito in questo bizzarro racconto sportivo di rinascita. Il rapporto fra Rongen e i samoani offre infatti spazio a una riflessione più allargata sulle dinamiche che si vengono storicamente e culturalmente a creare fra una piccola nazione subordinata a una superpotenza (le Samoa Americane sono territorio degli Stati Uniti) e la sua “madrepatria”, in questo caso rappresentata dall’ingombrante FIFA, espressione di un potere tutto occidentale. Rongen e i suoi giocatori, insomma, sono una perfetta metafora di due differenti aree del mondo, con il primo che si accanisce sui secondi, dimostrando nei loro confronti tutto il disprezzo nutrito dalle realtà “civilizzate” che si arrogano il diritto di insegnare agli ultimi come vivere, secondo un atteggiamento figlio di una tipica mentalità coloniale. La critica, va da sé, offre inoltre allo spettatore una prospettiva inedita sulla competizione sfrenata dei modelli economici dominanti, di cui il calcio è, a livello globale, uno dei massimi indicatori.
A queste direttive, gli scombinati giocatori samoani oppongono i valori semplici di un gruppo che trae forza dall’unicità dei suoi singoli elementi, ognuno dei quali si arrabatta tra vari lavori per poter unire sopravvivenza e carriera sportiva. Su tutto spicca l’orgoglio di una realtà isolana che vuole soltanto vedere riconosciuto il proprio diritto a esistere con il simbolico obiettivo di segnare un unico gol, lasciando per il resto che la sua identità, i suoi ritmi e le sue peculiarità restino del tutto inalterate. Saranno proprio questi aspetti a far breccia progressivamente nel cuore indurito dell’allenatore: in particolare spicca il personaggio di Jaiya Saelua, giocatrice transgender e rappresentante delle locali fa’afafine (persone di sesso maschile che adottano caratteri femminili), realmente esistente e che nella trasposizione di Waititi assurge ad autentica co-protagonista e ponte fra le culture e le differenti visioni del mondo, giocando una carta inclusiva non banalmente ascrivibile a un progressismo di facciata. È lei a lavorare ai fianchi le granitiche certezze di Rongen, traghettandolo verso i cambiamenti che avverranno nel terzo atto e che in verità sono gestiti in maniera un po’ frettolosa, con il classico “discorsetto” da spogliatoio, abbastanza convenzionale per la sensibilità altrimenti dimostrata da un autore come Waititi.
Sul campo, invece, Chi segna vince riesce a dimostrare una certa briosità di messinscena, lasciando percepire allo spettatore la forza dei calci impressi al pallone, complice un uso “performante” del comparto sonoro. Il resto lo fa un montaggio che raggiunge un buon equilibrio fra la mobilità nervosa di Michael Fassbender e le incertezze dei giocatori e gli scatti in cui il gruppo ritrova fiducia. Tutto il film, non a caso, è giocato su continue traiettorie da ridisegnare: quella alto-basso (la montagna e la spiaggia, cui corrispondono simbolicamente la superpotenza e la colonia) e quelle orizzontali e trasversali del campo da gioco e delle tattiche riassunte negli schemi tracciati da Rongen su lavagna. A loro possiamo naturalmente far corrispondere l’altrettanto complesso sistema di relazioni e dinamiche emotive che muovono i personaggi nella peculiare visione del mondo offerta dal cinema di Taika Waititi, naturalmente adorabili e ovviamente complessi anche quando si presentano con iconografie riconoscibili e ruoli ben definiti.