I film di Hong Sangsoo sembrano sempre più frammenti di un suo pensiero interiore, scorci di riflessioni o suggestioni che prendono forma in narrazioni occasionali, eventi inattesi di personaggi simbolici che vagano nel suo universo. Sarà anche una conseguenza del progressivo sfarinarsi dell’immagine fotografica dei suoi film nella bassa definizione del suo sguardo soggettivo, che ci costringe ad aderire a una approssimazione visuale delle figure e delle scene contraria a qualsiasi estetica dell’immagine enhanced da cui siamo dominati, a quel continuo performare le storie e i caratteri e gli ambienti in una potenzialità visuale e narrativa assoluta e pervasiva… Hong Sangsoo, insomma, sta sempre più diventando quello che si dice un autore minimale, che sbozza le sue storie da pezzi di vita e di mondo che sembrano trovati per caso, costringendoci a stare con lui, spettatori sospesi nel vagolare dei suoi personaggi in un mondo che tutto sommato non c’è più…Anche What Does That Nature Say to You, il film che ha in concorso alla Berlinale75, sembra scaturire da una sorta di after life oggettivo, un altro classico esempio della parabola poetica infinitiva di Hong Sangsoo: come sempre inizia in medias res, stacco netto e incongruo su un’azione in corso, che sembra quasi fuori dal tempo e dal mondo, scheggia di vita di figure casuali. Nel caso specifico ci sono Donghwa, regista di matrimoni part time e aspirante poeta per vocazione, e Junhee, la ragazza di buona famiglia con la quale esce da tre anni: fermi sul ciglio della strada a bordo della vecchia auto vintage del ragazzo, a pochi passi dalla grande villa costruita su una collina dal padre di Junhee.
Nulla è previsto e tutto accade: Donghwa vorrebbe solo vedere la casa da fuori, ma il padre di Jonhee è lì, si presenta, lo invita a restare e per tutti ha inizio una lunga giornata in cui sono coinvolti anche la madre e la sorella della ragazza. Come sempre in Hong Sangsoo il faccia a faccia tra personaggi è la chiave d’accesso (rohmeriana, ovviamente) alla conoscenza della verità di ognuno, non tanto una questione di fatti e eventi, quanto una dinamica di svelamento oggettivo e soggettivo delle fragilità, delle attese inconfessate, dei desideri rimossi e delle emozioni ignote. L’incontro di famiglia, tanto più perché imprevisto, si traduce in un dialogo sul valore concreto delle cose mascherato da riflessione sul senso che si dà agli elementi della propria vita: la casa tempio in onore della vecchia madre morta, costruita dal padre di Jonhee, il cammino verso la cima della collina da dove si vede il tramonto, il container che l’uomo ha piazzato lì come suo piccolo regno… E di contro la curiosità per la vecchia macchina usata di Donghwa, per i suoi versi e per il suo tenore di vita, l’insistenza sulla volontà del ragazzo di essere autonomo e non dipendere dall’aiuto del padre… E poi la gita a un tempio buddista, il pranzo fuori casa e la cena a casa con madre e sorella, troppo alcol che fa emergere i contrasti…
Hong Sangsoo dispone le dinamiche sulla scena con la consueta linearità tra azioni e reazioni, insiste sulle differenze che scaturiscono dall’apparente armonia, riflette sull’ipocrisia delle relazioni e sulla falsità che soggiace alle convinzioni più solide. La vittima sacrificale della parabola è il fragile Donghwa, col quale il regista empatizza ma che allo stesso tempo stigmatizza… Il ragazzo è uno spirito candido, animato dalle migliori intenzioni, dalla forza di una concezione della vita tesa a una semplicità e a una spiritualità sincera, ma la sua inanità emerge sempre più palese e Donghwa sembra sempre più un’ombra sfocata, indefinita, svaporata nell’immagine… Hong Sangsoo insiste sul concetto stringendo il campo visivo sul ragazzo con primi piani ottenuti in post produzione, digitalmente, che vanno a sgranare ulteriormente la già bassa definizione originaria dell’immagine. Il suo smarrimento nella scena diventa sempre più flagrante, palese e ironicamente doloroso: il processo di valutazione e conseguente svalutazione cui è soggetto è una trama implicita già nell’incipit e non è che la conseguenza del confronto tra le ispirazioni e le aspirazioni del ragazzo e la struttura sociale/familiare pur apparentemente accogliente e empatica in cui si trova inaspettatamente immerso. Nulla della sua semplicità si salva, men che meno quell’auto vintage che è solo una vettura usata destinata a lasciarlo in panne sulla strada del ritorno…